Valsusa alla sbarra. I pm vogliono offrire «notizie e spunti di riflessione» per chi è interessato. Premessa civile, non più le “dichiarazioni di guerra” degli anni scorsi. Iniziamo da qualche risposta su alcuni punti essenziali
Con una lunga lettera a La Stampa del 14 luglio i vertici della Procura torinese sono intervenuti sulla vicenda dei processi contro appartenenti al movimento No Tav con il dichiarato fine di «offrire notizie e spunti di riflessione destinati a chiunque sia a ciò interessato». La civiltà della premessa – così diversa da molte “dichiarazioni di guerra” degli anni scorsi – rende opportuna una risposta articolata e dialogante. Dialogante ma non per questo meno ferma sui punti essenziali.
Il cuore dell’intervento dei pubblici ministeri torinesi è l’asserita improprietà e infondatezza dell’assunto – da me, tra gli altri, formulato – secondo cui sarebbe in atto in Valsusa una vera e propria strategia di criminalizzazione del movimento No Tav, realizzata con un intervento repressivo crescente in quantità e in qualità anche in relazione a fatti di minima entità. Secondo i vertici della Procura l’intervento giudiziario in atto altro non sarebbe che il doveroso esercizio dell’azione penale, mentre l’infondatezza delle critiche sarebbe confermata dall’inesattezza dei dati riferiti (che gli indagati sarebbero “solo” 183 anziché, come pure è stato detto, 1000) e dalla superficialità di alcuni interventi critici (di qualche intellettuale e del regista Virzì) effettuati senza aver letto atti e sentenze.
Non è questa la realtà. Gli indagati per reati connessi con l’opposizione al Tav, anche di rilevanza minima, sono stati negli ultimi anni ben più di 1000 (erano 987 a fine dicembre 2013, come documentato da La Stampa del 1 marzo 2014) e sorprende, dunque, il tentativo un po’ maldestro di ridurne il numero conteggiando solo quelli dell’ultimo anno; le critiche agli interventi giudiziari, poi, vanno certamente argomentate e fondate su elementi concreti ma devono accompagnare indagini e processi, ché la pretesa di attendere le sentenze (magari passate in giudicato) altro non è che la pretesa, inaccettabile in un sistema democratico, di andarne esenti per principio. Ma andiamo al punto fondamentale.
Qui – ripetiamolo ancora una volta – l’obbligatorietà dell’azione penale non c’entra nulla. Nessuno, nel movimento No Tav, chiede impunità a prescindere. Quel che si chiede è un esercizio dell’azione penale sereno, equilibrato e uguale per tutti (No Tav e Sì Tav, manifestanti e forze dell’ordine). Ché l’intervento giudiziario presenta sempre ampi margini di discrezionalità, cioè di scelta: la gran parte delle misure cautelari è facoltativa cioè legata alla valutazione del caso concreto; l’interpretazione delle norme, lungi dall’essere un sillogismo formalistico, è un’operazione che implica giudizi di valore, bilanciamento di princìpi, opzioni culturali; i tempi dei processi possono essere particolarmente celeri o lentissimi; le indagini possono essere accurate o superficiali; le pene previste per i reati variano da un minimo a un massimo, spesso con una forbice assai ampia e via seguitando.
Orbene in questo quadro ci sono domande che da anni vengono poste ai pubblici ministeri e ai giudici della cautela torinesi e che non hanno mai avuto risposta. Proviamo a ripeterne alcune: che senso ha la contestazione di attentato con finalità di terrorismo per il danneggiamento aggravato di un compressore (ostinatamente perseguita anche dopo la netta bocciatura della Corte di Cassazione)? È normale scrivere in un’ordinanza che la misura cautelare in carcere è «il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le suddette consistenti ed impellenti esigenze cautelari» (sic!)? Quale correlazione con la finalità della misura ha l’applicazione dell’obbligo di presentazione all’autorità di polizia nei confronti di una persona ultrasettantenne, abitante da sempre nello stesso comune e con difficoltà di deambulazione? Qual è la finalità di disporre la perquisizione personale anche delle persone trovate in compagnia dell’indagato per un fatto di resistenza commesso sei mesi prima? A quale fine sequestrare computer e cellulari di terzi in relazione a un fatto di resistenza? Perché celebrare dibattimenti nei confronti finanche di sindaci nell’aula bunker costruita per i processi di terrorismo e di mafia? Perché portare a giudizio a pochi mesi dal fatto il taglio dimostrativo di una maglia della rete di recinzione del cantiere di Chiomonte realizzato di fronte a giornalisti e fotografi mentre la carenza delle risorse impedisce di fare gli ordinari processi? È ammissibile che un pubblico ministero apostrofi, nel corso di un incidente probatorio, una persona offesa (con un labbro spaccato per le percosse subite dalla forza pubblica) con l’espressione «lei non faccia la vittima!»? È inevitabile – o frutto di un diverso impegno nelle indagini – che gli operatori di polizia autori di violenze non siano pressoché mai identificati mentre per l’intasamento di alcuni bagni di palazzo di giustizia si ricorre ad accertamenti peritali sulle impronte digitali rilevate?
Sono solo alcune delle domande possibili. Ed è la prosecuzione di queste modalità e la mancanza di ogni spiegazione (con ammissione, quando necessario, degli errori e delle forzature commessi) che determina la lettura degli interventi giudiziari come una strategia diretta a reprimere in modo indifferenziato il dissenso.
Certo ci sono stati e ci potranno ancora essere dei reati. Anche gravi. E i magistrati dovranno perseguirli. Di più, esiste una questione della violenza con cui il movimento deve fare i conti. Ma siamo proprio sicuri che si tratti di un problema che riguarda solo il movimento e non anche le istituzioni dello Stato (con i loro comportamenti, le loro forzature e i loro silenzi)? Cominciare finalmente a parlarne senza rimozioni sarebbe un primo passo importante. E non mi pare che sia il movimento No Tav a sottrarvisi.
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