Intervista . Parla Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti ed ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. «Si torni al testo della Camera. Chi vuole attutire il ddl interpreta male la difesa della polizia»
«La legge sulla tortura manda un messaggio chiaro: le forze dell’ordine del Paese sono forze sane che non hanno paura di strumenti per perseguire chi sbaglia. Perciò tutti quelli che vogliono spuntarla o attenuarla, per paura di non poter operare, implicitamente interpretano male un ruolo di difesa delle forze dell’ordine. Le forze di polizia si difendono con strumenti di questo tipo». Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, segue attentamente i lavori del Senato sul ddl tortura che ieri sono ripresi in Aula per poche ore con l’esame degli emendamenti all’articolo 1, per essere poi rinviati a martedì prossimo.
Mauro Palma
L’ex Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura è in partenza per San José di Costa Rica, «che è un po’ la Strasburgo del continente americano», invitato dalla Corte interamericana dei diritti dell’uomo per parlare proprio di lotta alla tortura, essendo internazionalmente riconosciuto come un’autorità sul tema.
Ancora ieri i sindacati di polizia hanno ripetuto la richiesta di non eliminare dal testo del ddl in esame il requisito della reiterazione delle violenze e delle minacce gravi, come sembra sia invece ora intenzionata a fare la maggioranza, visto il parere favorevole dei relatori all’emendamento del M5S che ha sollevato le accuse di «tradimento» dei verdiniani e di Forza Italia. Cosa ne pensa?
Sono obiezioni di natura diversa, alcune condivisibili altre no. Premetto che, all’attuale testo, avrei preferito quello approvato ad aprile 2015 dalla Camera, che era una mediazione accettabile. E premesso che tutte le convenzioni internazionali non considerano tortura né trattamento inumano e degradante tutte le situazioni strettamente legate alla privazione della libertà per una legittima decisione delle autorità. Va invece chiarito che poiché la responsabilità penale è individuale, la violenza in sé agita da un individuo va sanzionata. Ogni atto. Al singolare, come stabiliscono molte definizioni internazionali e anche la Cedu, che parla esplicitamente di «ogni atto», non di una «pluralità di atti». E la motivazione è semplice: se più soggetti agiscono contemporaneamente all’interno di un gruppo, e ognuno infierisce sulla vittima con un atto singolo, si rischia che nessuno possa essere perseguibile per il reato di tortura.
Forze dell’ordine (e centrodestra) sostengono poi che se si tipizza la fattispecie sulla gravità delle sofferenze inflitte anziché su quella delle violenze, c’è il rischio di considerare tortura anche le afflizioni derivanti da sanzioni legittime, come l’arresto e l’imposizione delle manette, o da azioni di forza necessarie nell’ambito delle “normali” operazioni di polizia. Il suo punto di vista?
Il concetto di sofferenza e di gravità dell’atto è difficilmente definibile in termini normativi. La Corte di Strasburgo lo fa rientrare nel cosiddetto «margine di apprezzamento» di chi indaga o giudica. La Corte parla di «gravità della sofferenza inflitta», concetto dietro al quale c’è un misto di gravità dell’atto e gravità della sofferenza. Ricordiamoci di Beccaria, quando parlava di resistenza dei muscoli. Se guardo solo alla gravità della sofferenza, lego il concetto della tortura alla capacità di resistere che ha la vittima. È chiaro che se una persona è più vulnerabile – un minore o una donna – o è in un momento di maggiore vulnerabilità, la tortura inflitta può essere giudicata più grave. Ma la gravità è un elemento congiunto sia dell’atto compiuto che della sofferenza causata, e valutarla attiene al margine discrezionale di chi indaga e giudica.
I relatori si sono espressi a favore anche di un emendamento proposto da Cor che prevede l’aggravante quando la tortura è commessa da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, «con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio». In questo modo si elimina la dicitura «nell’esercizio delle funzioni o nell’esecuzione del servizio». È un passo avanti?
No, mi sembra strana questa proposta, perché il testo originario tutela maggiormente chi opera. Del resto, la Convenzione internazionale lo dice chiaramente: non deve essere rinvenuta anche una specifica violazione dei doveri o un abuso dei poteri. L’aggravante va riconosciuta se il reato viene commesso nell’esercizio della funzione di chi ha in carico la tutela della persona fermata o arrestata. Detto questo, premetto che non mi straccio le vesti per il reato tipizzato contrapposto al reato di ordine generale.
Cioè lei non considera necessario che il reato sia proprio di pubblico ufficiale?
È vero che la Convenzione Onu parla di reato commesso da pubblico ufficiale, ed è vero che ha un valore quasi simbolico. Ma è pur vero che altre Convenzioni e testi, come ad esempio lo statuto della Corte penale internazionale, lo concepiscono anche come reato non tipizzato. Questo perché possa essere ugualmente perseguibile anche se ad agire è qualcuno che non è stato investito ufficialmente dalle autorità costituite. Faccio l’esempio di alcune repubbliche caucasiche che spesso si giustificavano sostenendo che ad agire erano «bande», non forze statali. Infatti si trattava spesso di settori paramilitari, non formalmente riconosciuti ma più che tollerati.
Una situazione che potrebbe essere riscontrata anche in Egitto…
Ecco, appunto, prendiamo l’Egitto: se fosse riscontrato che a torturare Giulio Regeni sono stati settori che non rispondevano agli ordini impartiti dalle autorità costituite, cosa dovremmo dire, che non sono perseguibili per tortura? Capisco che siamo in Italia, e qui tutto è diverso, però quando si definisce una figura di reato non ci si ferma all’applicazione nel proprio Paese ma lo si fa anche per il valore in sé del messaggio che si trasmette attraverso la definizione.
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