La libertà  di stampa in Cassazione

Oggi, 23 novembre, in cassazione è in gioco il diritto all’informazione e il diritto alla ricerca della verità  da parte di giornalisti, storici, politici e, in ultima analisi, cittadini rispettosi della costituzione e amanti di una democrazia trasparente su vicende drammatiche che hanno insanguinato la nostra repubblica. Si tratta del caso del giornalista Renzo Magosso condannato in primo grado a Monza e in appello a Milano nella causa per diffamazione intentata contro di lui (e contro il direttore del giornale Umberto Brindani) dal generale Ruffino e dalla sorella del defunto generale Bonaventura per avere pubblicato sul settimanale Gente del 17 giugno 2004 una intervista a un sottufficiale dei carabinieri dell’epoca, Dario Covolo, che dichiarava di avere presentato sei mesi prima dell’omicidio del giornalista Walter Tobagi una nota informativa sulla progettazione di questa azione criminosa: l’accusa, estremamente grave è che i suoi superiori per superficialità , insipienza o per inconfessabili motivi la trascurarono e non fecero nulla per impedire l’attentato.

Oggi, 23 novembre, in cassazione è in gioco il diritto all’informazione e il diritto alla ricerca della verità  da parte di giornalisti, storici, politici e, in ultima analisi, cittadini rispettosi della costituzione e amanti di una democrazia trasparente su vicende drammatiche che hanno insanguinato la nostra repubblica. Si tratta del caso del giornalista Renzo Magosso condannato in primo grado a Monza e in appello a Milano nella causa per diffamazione intentata contro di lui (e contro il direttore del giornale Umberto Brindani) dal generale Ruffino e dalla sorella del defunto generale Bonaventura per avere pubblicato sul settimanale Gente del 17 giugno 2004 una intervista a un sottufficiale dei carabinieri dell’epoca, Dario Covolo, che dichiarava di avere presentato sei mesi prima dell’omicidio del giornalista Walter Tobagi una nota informativa sulla progettazione di questa azione criminosa: l’accusa, estremamente grave è che i suoi superiori per superficialità , insipienza o per inconfessabili motivi la trascurarono e non fecero nulla per impedire l’attentato. Mi auguro che questa vicenda non venga seppellita definitivamente: al contrario che venga riaperta doverosamente per rispetto della legge e per non dare ragione a chi vuole intimidire e ridurre al silenzio, con un metodo vile e addirittura teorizzato, quello dell’esosità di multe e risarcimenti, le voci coraggiose che non si rassegnano alla verità di comodo e alla implicita richiesta di salvaguardia di interessi di corpi, servizi e corporazioni. Per una pura coincidenza inoltre la sentenza della Cassazione giunge quasi in concomitanza con la sentenza della Corte d’appello di Brescia che dopo 36 anni ha dichiarato che la strage di Piazza della Loggia non ha colpevoli: sempre una richiesta a rassegnarsi alla forza di un destino cieco e sordo. Mi occupo della vicenda di Magosso dal 2003 quando fu pubblicato il libro «Le carte di Moro. Perché Tobagi» da lui scritto insieme a Roberto Arlati e che fu oggetto di interrogazioni parlamentari.
Nel 2007 con alcuni articoli sul Riformista (10 luglio, 12 e 21 settembre) ho ricostruito con estrema puntualità la vicenda che successivamente si è arricchita di altri inquietanti sospetti da me registrati con due ulteriori articoli, il 31 ottobre e il 22 novembre 2009 sul manifesto per le rivelazioni sulla morte di Manfredi De Stefano, uno dei componenti della Brigata XXVIII marzo responsabile dell’assassinio Tobagi, rivelazioni denunciate dalla figlia benedetta nel suo volume che riporta incredibili affermazioni del giudice Caimmi all’epoca titolare dell’inchiesta.
Ma torniamo all’oggi. È evidente che non siamo di fronte a una banale causa di diffamazione ma a una questione cruciale di libertà di informazione e di diritto di sapere condizionata in questa occasione dal riemergere inquietante di un pezzo di storia ancora controverso del nostro paese che qualcuno vorrebbe sepolto per sempre. I giudici di Monza e di Milano si sono trincerati dietro il comodo paravento che il processo per l’omicidio Tobagi ha accertato la verità e che nuove rivelazioni non possono mettere in discussione il giudicato, anzi hanno in pratica sostenuto che la verità processuale impedirebbe una ulteriore ricerca storica. Secondo questi giudici, il giornalista Magosso non avrebbe dovuto pubblicare l’intervista di Dario Covolo (che durante il processo ha riconfermato senza alcun dubbio la fedeltà testuale delle frasi incriminate) o almeno ridimensionarla ricordando al lettore la sentenza e le deposizioni dell’infiltrato Rocco Ricciardi e dell’assassino Marco Barbone. Così sentenziando hanno trascurato nette pronunce delle sezioni unite della Corte di cassazione sulla non responsabilità del giornalista per le affermazioni dell’intervistato, sostenendo anche che il giornalista avrebbe dovuto intervistare il generale Ruffino per dargli modo di smentire la nuova versione dei fatti. Insomma i giudici hanno preteso di insegnare come si fa informazione e giornalismo cerchiobottista. La sentenza di condanna di Magosso è profondamente sbagliata per quanto riguarda il diritto di cronaca che deve essere tutelato e garantito, ma è farisaica per il merito della questione che viene risolto accettando acriticamente le versioni ufficiali e non prendendo in considerazione innegabili fatti nuovi. Così non cogliendo anche l’opportunità di rimuovere troppi veli che ancora sembrano coprire la completa chiarificazione del caso Tobagi.
La Cassazione ha l’opportunità di correggere tutto ciò, riaffermando anche i sacri principi di libertà.

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