Torino, un test nazionale. Dalla grande produzione alla grande distribuzione, Torino divisa in due, tra ricchi e poveri, tra chi vive di più e chi muore prima. E il senso di una sinistra in campo
Chissà se Matteo Renzi, quando ha parlato qui Torino per sostenere il suo candidato sindaco, conosceva la storia di M.N., insegnante sessantenne costretto a nutrirsi alla mensa dei poveri del Sacro Cuore, perché da mesi aspetta lo stipendio, insieme ad altre decine di nuovi poveri come lui.
O chissà se ha mai sentito parlare di Pierluigi Dovis, direttore della Caritas torinese, che nemmeno un mese fa ha lanciato l’allarme sulle dimensioni della povertà a Torino, che ha superato il livello record del 15%, la città più povera, o meglio con più poveri (oltre centomila), di tutto il Nord. Il doppio rispetto a otto anni fa, quando non si superava il 7%, costituiti in maggior parte da «nuove povertà», cassintegrati, coniugi separati, demansionati…
Forse li ignorava davvero questi numeri e queste storie il «sindaco dei sindaci»piovuto da Roma. O forse li conosce e non gliene importa niente perché quel che conta è il racconto, la «narrativa» appunto, di cui lui è maestro nell’imporla su qualunque realtà.
E la narrativa che va forte sul palco dell’Alfieri è quella della «città che va», che ce l’ha fatta, che è sopravvissuta alla crisi ed è meglio di prima grazie alla sua classe dirigente per cui chiede continuità («Il cambiamento non si fa quando le cose vanno bene», sic!).
Anzi, che è un modello per tutti («Voi siete capitale della trasformazione, capitale del cambiamento»). E chi lo nega è un gufo.
Non è, si badi, un racconto inventato a Roma, da un premier istrione. E’ il racconto che va per la maggiore anche in una certa Torino, quella che effettivamente si è salvata, ha svoltato, è persino cresciuta, si è tirata a lucido e imbellita: la «prima Torino» potremmo chiamarla, la «città dei forti» che abitano la precollina e il centro affluente, tra libere professioni, finanza e commercio d’èlite, vecchi centri di potere riciclati, rendita immobiliare, intermediazione con la politica.
Questa narrazione si scambiano tra loro nei circuiti che contano, confermati dallo spettacolo del centro scintillante, e impongono a tutti, perché hanno voce potente, l’unica in grado di farsi sentire.
Poi c’è l’altra Torino, la città fragile che è scesa sul lungo piano inclinato della riconversione da metropoli di produzione a «città generica» (per usare l’espressione di Rem Koolhaas). Quella delle periferie, certo, che non fanno più nemmeno notizia. Ma anche quella dell’ex ceto medio, scivolato in basso, in un non luogo sociale pieno di ombre.
Loro sanno alcune verità che non hanno cittadinanza in alto. Sanno, per averlo sperimentato in famiglia, che qui il tasso di disoccupazione è il più alto di tutta l’Italia centro-settentrionale (bisogna scendere sotto Roma per trovarne di superiori).
Vedono, per averli sotto casa, i grandi vuoti industriali, ancora in macerie oppure riempiti da centri commerciali che certificano il passaggio dalla grande produzione alla grande distribuzione. Vivono gli effetti del taglio dei servizi (9 nidi comunali cancellati con 300 insegnanti e 700 bambini)…
Sanno, ma la loro vita non fa racconto, perché non hanno voce.
Forse è per questo che Matteo Renzi, nella sua visita pastorale in città, ha selezionato Giorgio Airaudo come nemico principale (mentre sceglieva Sergio Marchionne come alleato storico).
Perché Airaudo, con la lista Torino in Comune e quelle a essa collegate, ha provato a dar voce a quella «seconda Torino». A offrirne, almeno, il racconto alternativo. E nel far questo ha rivelato quanto le due città si siano allontanate, in questi anni, l’una dall’altra.
Tanto distanti che la prima (che sta in alto e a cui per una sorta di catastrofe socioculturale si sono inclusi gli ex dirigenti della sinistra di ieri) non riesce neppure più a vedere la seconda, che sta in basso, e sola.
Tanto distanti, potremmo aggiungere, che la diseguaglianza si fa biopolitica, lavora sul bios, e fa registrare una differenza di aspettative di vita tra i primi e gli ultimi di anni (fino a sei!). L’ha mostrato con la chiarezza delle immagini Giuseppe Costa, epidemiologo che da sempre misura il rapporto tra povertà e salute, con l’esempio del tram 3, che da Piazza Hermada nella ricca precollina va fino alle Vallette nell’estrema periferia nord e attraversa uno spazio in cui, per ogni chilometro percorso, si scala di mezzo anno di vita.
Airaudo con le donne e gli uomini delle sue liste su quel tram ci ha viaggiato (Renzi evidentemente no, e neppure Fassino altrimenti non accetterebbe quel discorso sulla sua città). E per questo può oggi fare un’operazione di verità (di cui Torino ha bisogno come del pane).
Denunciando non solo lo scandalo dell’ingiustizia sociale, ma anche le responsabilità di chi ha amministrato la «transizione». Mettendo il dito sul feroce indicatore del disastro: il bilancio comunale. E il suo gigantesco debito (Torino è la città più indebitata d’Italia, sia in valori assoluti che in termini pro capite, con 3 miliardi di euro da restituire alle banche), vero macigno al collo che tiene sott’acqua la città bassa.
Debito accumulato con crescita esponenziale per finanziare quella trasformazione della «città alta», la sua nuova «immagine», i cui interessi bancari ora assorbono buona parte delle risorse e impongono aliquote d’imposta soffocanti (questa è anche la città più tassata d’Italia).
«Torino – suggerisce Airaudo – è come un’ex bella donna [o un ex bell’uomo, naturalmente] che ha dilapidato tutto in lifting e maquillage, protesi e botulino, e deve risparmiare sul cibo», magari raccontandosi favole (come quella di confondere Torino con Detroit e scambiare la migrazione della Fiat con la sua sopravvivenza)…
Il voto di domenica ci dirà quanta energia in questa città è rimasta per permetterle di guardare in faccia la propria realtà per reagire, o quale grado di narcosi ha prodotto il camouflage di questi anni.
Sarà una sorta di test clinico. Ma resta il valore in sé di questo tentativo di contrapporre un esercizio di verità al racconto dall’alto.
In ciò l’esperimento elettorale torinese ha un rilievo nazionale: dice, insieme alle altre grandi città in cui si vota (e ai tanti comuni in cui sono presenti liste uniche di sinistra), quanto sia essenziale la rottura delle rappresentazioni virtuali per un vero nuovo inizio di una sinistra di alternativa all’altezza delle sfide attuali. E quanto stiano tra loro in contrapposizione assoluta i due progetti e i due racconti: quello (oligarchico) che per prolungare in una temporalità senza fine l’insostenibilità di un paradigma finito usa l’illusionismo di potere, e quello (popolare, non populista!) che lavora sul reale e la sua coriacea durezza.
D’altra parte le altre esperienze europee, quella spagnola in primis, ci dicono che è dal livello «sorgente» municipale, non da quello logoro centrale, che può rinascere una sinistra veramente nuova e unitaria.
Per questo è importante l’impegno, assunto proprio a Torino dai candidati delle liste d’alternativa a sinistra delle grandi città (Airaudo, Fassina, Martelloni e Basilio Rizzo), a non fermarsi al voto di giugno, ma di mantenere la propria rete attiva, allargarla, e riconvocarsi a breve.
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