L’arroganza dei poteri esecutivi, la restrizione continua degli spazi politici democratici non lascia che una alternativa: o la rassegnata accettazione delle «riforme» imposte dalle élites o un moto di rivolta che proviene dal basso
Vedremo presto se e quanto gli strumenti emergenziali decretati dopo gli attacchi terroristici a Parigi verranno impiegati nella repressione della protesta sociale. Di certo la risposta di polizia alle mobilitazioni contro la nuova legge sul lavoro voluta dal governo di Parigi non è stata morbida.
Quasi inesistenti le concessioni nei confronti di un movimento che chiede il ritiro del provvedimento senza mezzi termini, pesante fino alla brutalità, l’intervento delle forze di polizia contro i manifestanti nelle diverse mobilitazioni di piazza che si sono susseguite da diverse settimane a oggi.
Con il risultato di far crescere di giorno in giorno indignazione e rabbia.
Quello che a tutti sembra essere ormai chiaro, anche a chi non partecipa direttamente agli scontri (quelli rubricati dalla stucchevole letteratura mediatica come casseurs) è l’assoluta indisponibilità alla mediazione dei governi europei, socialdemocratici e non, in tema di diritti e garanzie.
L’arroganza dei poteri esecutivi, la restrizione continua degli spazi politici democratici non lascia che una alternativa: o la rassegnata accettazione delle «riforme» imposte dalle élites o un moto di rivolta che proviene dal basso, abbastanza forte da far temere seriamente per la tenuta della pace sociale.
La Francia, schiacciata tra una destra in costante espansione e la peggior presidenza che il socialismo europeo abbia mai prodotto, indica che questa seconda strada può essere intrapresa. E questo è quello che conta, indipendentemente da come si concluderà la partita in corso a Parigi. Ma il problema non è certo solo francese. Il jobs act transalpino si colloca perfettamente in quella scia di riduzione dei diritti del lavoro, di sfruttamento della precarietà e di contrazione del welfare che delinea l’orizzonte politico dominante in tutto il continente. Il cappio torna a stringersi intorno al collo di Tsipras ad Atene incalzato dal Fondo monetario internazionale che reclama ancora austerità, mentre Berlino si accinge a seguire l’esempio britannico nel negare le prestazioni sociali (divenute comunque assai modeste grazie al socialdemocratico Schröder) ai cittadini comunitari che non lavorino in Germania da almeno 5 anni. Neanche a dirlo, la proposta proviene ancora una volta da un ministro socialdemocratico.
L’attacco contro i settori più sfavoriti della popolazione europea continua senza tregua, consegnandoli in proporzioni molto rilevanti alla demagogia della destra. Quando non è direttamente la socialdemocrazia a rubarle il mestiere, come nel caso austriaco. Converrà cominciare a rendersi conto di come e quanto la gestione della cosiddetta «crisi dei migranti» venga manovrata proprio contro i diritti e i livelli di vita dei cittadini europei in nome della loro pretesa protezione: dalla chiusura delle frontiere, alle deroghe sul salario minimo e la previdenza.
A stupire, dunque, non è l’estensione e l’intensità del movimento francese, ma l’assenza di una reazione altrettanto determinata in altri paesi europei, a cominciare dal nostro. Dove quella «convergenza delle lotte» che in Francia si tenta di sperimentare, resta, nel migliore dei casi, una vaga petizione di principio o uno slogan assembleare.
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