Internet è un habitat dove crescono iniziative economiche e sociali che possono prefigurare, attraverso pratiche di condivisione, lo sviluppo di una società postcapitalista. «Neurocapitalismo», un saggio di Giorgio Griziotti
Dietro ogni acronimo della computer science c’è una concezione dei rapporti tra umani e macchine che coinvolgono il lavoro, la comunicazione, le relazioni amorose, cioè la vita en général. A ricordarci questa semplice verità è Giorgio Griziotti, autore del volume pubblicato da Mimesis (Neurocapitalismo, pp. 260, euro 20) nel quale Internet e la telefonia mobile sono considerate il sistema integrato di macchine alla base della contemporanea produzione della ricchezza.
Griziotti svolge un lavoro dove le macchine hanno un ruolo fondamentale. Per oltre vent’anni in Francia ha lavorato come «consulente organizzativo», che tradotto vuol dire ha lavorato alla progettazione di processi lavorativi incardinati su computer messi in rete. Militante politico negli anni Settanta, Griziotti ha dovuto prendere la strada per la Francia per la sua attività politica. Oltralpe ha vissuto quella che è stata chiamata «la rivoluzione del silicio» da una prospettiva «interna», essendo un progettista organizzativo.
Per trent’anni ha accumulato materiali e partecipato a seminari attorno a cosa stava cambiando nel mondo del lavoro e delle imprese. Non nasconde in questo libro il fatto che il suo percorso di ricerca è da collocare all’interno di quel gruppo di filosofi, economisti e sociologi che in Francia è qualificato come i teorici del «capitalismo cognitivo», ma che ha tuttavia importanti echi anche nei paesi anglosassoni.
TECNOLOGIE UNIVERSALI
Neurocapitalismo è divisto in tre parti. La prima riguarda la produzione, le altre la comunicazione e gli «affetti», alla luce di una concezione del computer come «tecnologia universale», cioè che può essere programmata per svolgere lavori, scambiare messaggi e immagini, ma anche per costruire reti sociali basate su «affinità elettive». Un triangolo tematico usato per parlare della deregolamentazione del mercato del lavoro, con conseguente crescita della precarietà, del ridimensionamento del welfare state, dell’uso messianico e ideologico della figura dell’individuo proprietario come unica forma di forma di vita.
Come spiega in un video prodotto da Officine multimediali disponibile su YouTube, l’autore sostiene, a ragione, che questa infrastruttura digitale può dispiegare la sua potenza economica e politica solo grazie alla avvenuta convergenza tecnologica tra telefoni cellulari di ultima generazione (gli smartphone) e computer. L’autore chiama l’habitat che si è venuto a creare come «bioipermedia», dove la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro è ormai sfumata; e dove la conoscenza e la comunicazione sono, al tempo stesso, mezzi di produzione e contenuti sviluppati da una diffusa cooperazione sociale.
In maniera lieve, ma senza mai cadere in una stucchevole genericità, come spesso accade quando si parla di Rete, Griziotti mette sotto il suo microscopio i neologismi, gli acronimi usati per trasformare uno sviluppo economico e sociale definito a partire da progettazioni definite a tavolino come un evento naturale al quale non c’è alternativa. E se questa decostruzione del carattere ideologico delle tante narrazioni sullo spirito del tempo contemporaneo è una mission possible per il lavoro, più difficile è farlo per la comunicazione e per gli affetti. Per farlo, l’autore attinge al concetto marxiano di general intellect e quello foucaultiano di biopolitica.
Dunque un saggio «riuscito», che si aggiunge a quelli usciti in questi anni dedicati appunto al «capitalismo cognitivo». Introducendo tuttavia degli elementi non sempre adeguatamente affrontati, come quello del ruolo svolto dal movimento del free software, espressione di una critica alla «società in rete», ma anche come modello di una possibile alternativa al capitalismo.
IL DISPOTISMO DELLA FINANZA
Il free software, afferma l’autore, ha svolto una critica alla proprietà intellettuale, ma anche indicato una strada da percorrere su come è possibile sviluppare iniziative economiche che sfuggono alla regola ferrea del lavoro salariato. Condivisione, cooperazione sociale evidenziano modi di produzione della ricchezza che sono «catturati» dal capitale. Siamo cioè in presenza di un regime di accumulazione «estrattivo», che espropria con la forza o attraverso il ruolo «politico» della finanza quel che viene prodotto autonomamente. Il capitalismo mostrerebbe cioè la sua natura parassitaria e dispotica. La retorica che accompagna, ad esempio, la sharing economy testimonia, secondo questo schema analitico, la trasformazione di modelli e di attività economiche mercantili in imprese capitalistiche.
Uber, Airbnb, Mechanical Turkle e le decine di siti internet che consentono l’affitto di case e automobili altro non sarebbero che la trasformazione di pratiche basate sulla condivisione in attività economiche di tipo capitalistico. Ma questo, c’è da aggiungere, e l’autore del volume non ha difficoltà ad essere d’accordo, vale anche per il free software, come testimonia l’uso di software «libero» da parte di imprese come Apple, Google, Facebook. Griziotti afferma che la «cattura» da parte delle imprese non pregiudica però il fatto che sulla condivisione della conoscenza, della cooperazione sociale possano diventare le coordinate per una uscita dal capitalismo. Il mutualismo auspicato dai movimenti sociali, così come esperienze di coworking, di reti di imprese cooperative, il movimento dei makers alludono, per l’autore, a un virus che lentamente si sta diffondendo e che potrebbe portare a una società postcapitalista. E se il mutualismo rischia di essere una pratica di sopravvivenza in un mondo senza welfare state, c’è però da dubitare sulla capacità virale di esperienze di questo tipo di prospettare una fuoriuscita dal capitalismo.
Sono posizioni che ricordano discussioni da sempre presenti nei movimenti sociali dell’ultimo trentennio. Le tattiche lillipuziane intraviste dallo storico statunitense Jeremy Brecher nei movimenti noglobal; oppure le reti di coltivatori biologici segnalate in alcune interviste dai filosofi francesi Pierre Dardot e Christian Laval, noti per i loro studi sul neoliberismo, come espressioni di una riappropriazioni del «comune» senza passare le forche caudine di una regolazione statale dell’attività economica sono tutte manifestazioni di una strategia di superamento del capitalismo attraverso la diffusione appunto virale di attività basate sulla condivisione.
L’ISOLA CHE NON C’È
C’è, però, una disparità evidente tra un potere che si esprime sia a livello nazionale che globale da parte di Stati, organismi sovranazionali e imprese e una microfisica del potere sociale così enunciata. Manca cioè la capacità di sviluppare elementi politici di continuità, di articolazione tra la dimensione economica e sociale di attività economiche non capitalistiche basate sulla condivisione e il rapporto con il potere costituito. Manca cioè una dimensione politica che sappia fare i conti con le forme di governance globale e nazionale. L’auspicio di una fuoriuscita dal capitalismo come esito obbligato di pratiche sociali ed economiche diffuse e virali corre il rischio di rimanere, appunto, un auspicio. Poco più che il miraggio di giungere a un’isola che non c’è. Molto meno di una strategia politica.
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