Javier Cercas parte dal “Don Chisciotte” per svelare come la narrazione si fondi sul “punto cieco”: tutte le domande lasciate senza risposta
Il mio penultimo romanzo s’intitola “Le leggi della frontiera” e ruota intorno alle vicissitudini di una fittizia banda di delinquenti giovanili sorta alla fine degli anni Settanta in Spagna: la banda dello Zarco. Racconta la storia di un triangolo amoroso che si prolunga per trent’anni, un triangolo formato dallo stesso Zarco (il leader del gruppo), dal Gafitas (un adolescente di classe media che si unisce alla banda) e infine da Tere (il personaggio che forse incarna tutti i dilemmi morali del libro e ne conserva tutti i segreti). Così, di solito, io descrivo il romanzo; però Carlos Marzal, forse il maggior poeta spagnolo della mia generazione, lo ha descritto come un thriller esistenziale, che non soltanto si pone una domanda quasi poliziesca e cerca di risolverla (chi ha denunciato la banda dello Zarco?), ma che, in quella formulazione e in quel tentativo di risoluzione, implica questioni di ordine esistenziale. La descrizione di Marzal mi sembra esatta, soprattutto se subito dopo si aggiunge che, oltre a essere un thriller esistenziale, Le leggi della frontiera è un antithriller. Perché, contrariamente a quanto di solito accade nei thriller, alla fine la risposta alla domanda che il libro formula è che non c’è risposta; alla fine non sappiamo chi ha denunciato la banda dello Zarco. Al centro stesso del romanzo c’è, perciò, una domanda senza risposta, un enigma irrisolto, un punto cieco, un minuscolo luogo attraverso il quale, in teoria, il lettore non vede nulla; ma la verità, in pratica, è che il significato profondo di tutto il romanzo si trova lì, e che è proprio grazie a quel punto cieco che il romanzo vede, è proprio grazie a quel silenzio che il romanzo è eloquente (o dovrebbe esserlo), è proprio grazie a quell’oscurità che il romanzo illumina (o dovrebbe illuminare).
È questo il paradosso che definisce i romanzi del punto cieco; e anche tutti o quasi tutti i miei romanzi. In qualche momento del loro sviluppo viene formulata una domanda, e il resto del romanzo consiste, in forma più o meno visibile o segreta, in un tentativo di risposta, ma alla fine la risposta è che non c’è risposta. Alla fine di “Anatomia di un istante” non sappiamo con esattezza perché il 23 febbraio 1981 Adolfo Suárez, l’architetto della transizione dalla dittatura alla democrazia in Spagna durante gli anni Settanta, rimase immobile al suo posto da primo ministro nella Camera dei Deputati, mentre le pallottole dei golpisti gli fischiavano attorno e tutti o quasi tutti gli altri parlamentari cercavano rifugio sotto i loro scranni; e non lo sappiamo malgrado in un certo senso tutto il libro non sia che un tentativo di scoprirlo.
Allo stesso modo alla fine di “Soldati di Salamina” non sappiamo con esattezza perché, negli ultimi giorni della guerra civile spagnola, un soldato repubblicano salvò la vita di Rafael Sánchez Mazas mentre il poeta e ideologo fascista cercava di nascondersi in un bosco dopo essere miracolosamente sfuggito a una fucilazione collettiva; e non lo sappiamo benché nel corso di tutto il libro il giornalista che ne è protagonista non faccia altro che cercare di rispondere alla domanda. O, detto in altro modo: in nessuno di quei romanzi viene fornita una risposta chiara, tassativa e inequivocabile al loro interrogativo centrale, bensì soltanto una risposta ambigua, equivoca e contraddittoria, essenzialmente ironica; una risposta che in realtà non è una risposta e che tuttavia è l’unico tipo di risposta che possa permettersi il romanzo, perché il romanzo è il genere delle domande, non quello delle risposte: a rigore, l’obbligo di un romanzo non consiste nel rispondere alla domanda che esso stesso si pone, ma nel formularla con la maggior complessità possibile.
Mi riferisco ai buoni romanzi, è chiaro. O ai buoni romanzi moderni. O ai romanzi moderni che mi piacciono di più. Prendiamo, senza spingerci troppo lontano, il primo romanzo moderno, forse il migliore, in ogni caso quello che contiene in germe tutte le possibilità future del genere e che, proprio per il suo carattere fondativo, ne determina in gran parte l’avvenire. La domanda centrale che Cervantes formula nel Don Chisciotte è trasparente: Don Chisciotte è davvero pazzo?
Almeno di primo acchito, la risposta a questa domanda non è meno trasparente: Don Chisciotte è indubbiamente pazzo. Certo, si può non essere d’accordo sul tipo di follia di cui soffre il nostro cavaliere, e non sono mancati medici che hanno azzardato una diagnosi clinica della sua malattia. E allora? Don Chisciotte è pazzo o no? Non lo sappiamo; o, se si preferisce, Don Chisciotte è pazzo e non è pazzo allo stesso tempo: questa contraddizione, questa ironia, questa ambiguità essenziale, irriducibile, costituisce il punto cieco del Don Chisciotte. Ma è proprio grazie a questo punto cieco che il romanzo di Cervantes dice la cosa più importante che ha da dire.
Ciò che davvero dice Cervantes, grazie al punto cieco del suo capolavoro, è che la realtà — specie la realtà umana, che è quella che davvero gli interessa — è essenzialmente ambigua, ironica e contraddittoria: che Don Chisciotte è pazzo, ma è anche sano di mente; che Don Chisciotte è un personaggio comico e grottesco, ma anche un personaggio ammirevole, un eroe tragico; che tutti gli altri personaggi del libro condividono la duplicità del protagonista e che la condivide perfino il libro stesso: dopo tutto, quest’ultimo è naturalmente un’invettiva contro i libri di cavalleria, come lo stesso Cervantes afferma nel prologo alla prima parte, ma è anche un omaggio ai libri di cavalleria, e il migliore di tutti. Qui si svela la natura essenziale del Don Chisciotte, la sua evidenza più profonda e rivoluzionaria, la sua assoluta genialità, che consiste nell’aver creato un mondo radicalmente ironico.
Questo è il mondo caratteristico del romanzo: non solo quello del Don Chisciotte, ma anche quello del romanzo come genere. Questa tradizione eredita a fondo l’ironica visione del mondo dello scrittore spagnolo, l’antidogmatismo, lo scetticismo e la tolleranza che implica, e perciò risulta altrettanto essenziale o più essenziale dello sviluppo della scienza per il trionfo della modernità; questa tradizione eredita anche, almeno in alcuni casi fondamentali, lo strumento appropriato per collocare l’ironia al centro stesso del romanzo: il punto cieco.
****
IL LIBRO
Testo tratto da “Il punto cieco” di Javier Cercas ( Guanda, trad. di Bruno Arpaia pagg. 161, euro 17). L’autore sarà a Roma, a “ Libri Come”, il 20 marzo
0 comments