La paura è un sentimento che non abbandona i profughi birmani neanche dopo aver guadato il fiume Mae Nam Moei, che marca il confine tra un paese-carcere chiamato Myanmar e la Thailandia. Dall’altra parte li aspetta una vita nei molti campi di rifugiati che costellano il confine oppure la condanna a vivere senza un’identità . Oltre 140.000 birmani, karen, mon, shan hanno provato a costruirsi una nuova vita nella provincia di Tak, nella Thailandia occidentale. Alle spalle hanno lasciato il ricatto e le intimidazioni dei generali di Napyidaw ma qui subiscono le continue minacce di rimpatrio delle autorità thailandesi, che spesso li considerano «rifugiati economici» – anche se per far chiudere un occhio alla polizia corrotta basta pagare.
La paura è un sentimento che non abbandona i profughi birmani neanche dopo aver guadato il fiume Mae Nam Moei, che marca il confine tra un paese-carcere chiamato Myanmar e la Thailandia. Dall’altra parte li aspetta una vita nei molti campi di rifugiati che costellano il confine oppure la condanna a vivere senza un’identità . Oltre 140.000 birmani, karen, mon, shan hanno provato a costruirsi una nuova vita nella provincia di Tak, nella Thailandia occidentale. Alle spalle hanno lasciato il ricatto e le intimidazioni dei generali di Napyidaw ma qui subiscono le continue minacce di rimpatrio delle autorità thailandesi, che spesso li considerano «rifugiati economici» – anche se per far chiudere un occhio alla polizia corrotta basta pagare. I fuoriusciti birmani in Thailandia – da Mae Sot a Chiang Mai, Bangkok o Mae Hong Son – erano scettici sulla possibilità che la leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi tornasse in libertà. «I militari non permetteranno mai un bagno di folla per la premio Nobel pochi giorni dopo le elezioni. Stanno provando a legittimare il loro potere con questa farsa», ci dicevano tra le bancarelle di Chiang Mai, «come potrebbero togliere proprio ora i blocchi di cemento e i cavalli di frisia che impediscono l’ingresso alla casa della Signora?». Invece, contro ogni aspettativa, la Lady è libera.
Il mercato serale di Mae Sot è affollato come al solito. Tra i fumi di pollo sulle graticole e gli aromi delle spezie molti non credono ai propri occhi quando scorrono, sulla televisione thailandese, le prime immagini della leader dell’opposizione birmana stretta in un songyi color lilla che saluta la sua gente, sporgendosi esile come un filo – ma di ferro – dal cancello della sua abitazione, che è stato come un carcere in questi anni. Rimangono con la bocca spalancata per l’emozione. Poi è un’ondata di gioia, di sorrisi e d’entusiasmo.
Perché quella sagoma esile che si riaffaccia, dopo sette anni e mezzo, dal silenzio a cui è stata costretta nella sua casa sul lago Inya nel centro di Yangon è molto più che un leader politico. È una figura con un’estrema forza morale, spirituale per molti birmani. «Una degna figlia di suo padre», ripetono in molti nelle strade di Mae Sot. Suo padre, il generale Aung San, ha portato il paese all’indipendenza dalla dominazione britannica e poi dalle atrocità dei giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. «Aung San Suu Kyii è la miglior leader per noi» ci dice Richard Fernandez, fieramente birmano nonostante il nome, figlio di un portoghese e di una birmana e che faceva l’insegnante d’inglese a Mandalay prima di fuggire in Thailandia. «Rappresenta l’unica speranza di libertà e di democrazia per un popolo stroncato da 48 anni di dittature militari che hanno cambiato spesso nome, guida, bandiera ma che sono rimaste sempre uguali a se stesse. Ogni volta tutto cambia affinché nulla cambi». Uno spettacolo arrugginito di un gattopardo birmano.
«Abbiamo aspettato per sette anni e mezzo che fosse liberata», dice Nhi Oo, commerciate di giada tra lo stato Karen e la Thailandia, occhi lucidi per l’emozione su una possente stazza tipica dell’etnia Mon: «Aung San Suu Kyi è la madre di questa nazione». Stasera la figuretta esile rende possibile quello che appare impossibile in Birmania: l’unione e solidarietà tra le diverse minoranze etniche. Il trattato di Panglong, voluto da suo padre nel 1947, rimane ancora oggi, per molti leader etnici, la base dei negoziati con i generali di Napyidaw. Quel trattato integrava le minoranze nel territorio birmano garantendo di potersi scegliere dopo dieci anni il proprio destino. Fu contro il rischio di un attacco all’integrità dello Stato che con un golpe nel 1962 il generale Ne Win prese il potere, disintegrando i sogni di libertà di milioni i birmani.
«La liberazione di Augn San Suu Kyi è davvero una chance importante per noi, non come le elezioni di domenica scorsa» ci dice una signora birmana sulla cinquantina mentre è impegnata a non bruciare i gamberi che sta arrostendo sulla brace. E non vuol sentire parlare di accordi politici sotterranei con la giunta: «Libertà senza condizioni» ripetono da giorni i dirigenti della Ndl e i rifugiati in Thailandia.
«Aung San Suu Kyi è stata liberata perché la condanna è stata scontata fino alla fine ma in un regime come quello birmano si sarebbero potute trovare molti altri pretesti per proseguire la detenzione» dice Aung Naing Oo, analista politico birmano «dopo le frodi che hanno portato alla vittoria elettorale in molti tra i militari credono di poter contare su un ferreo controllo sul paese». Insomma, la libertà del premio Nobel vista come l’ennesima prova di forza della giunta allo sbando.
Il ritorno alla libertà di Aung San Suu Kyi potrebbe spiegarsi anche come un tentativo dei generali di indebolire ulteriormente l’opposizione parlamentare del Fronte nazionale della Democrazia, nato da una costola dissidente della Ndl, che ha voluto concorrere alle elezioni riuscendo ad ottenere solo 12 (o forse 16) seggi. O forse come un tentativo di accreditare ulteriormente la giunta presso alcune capitali asiatiche da New Delhi a Bangkok, da Pechino a Singapore che potrebbero così fare affari con la Birmania riuscendo a salvare la faccia. Tentativo maldestro, perché come ricorda il centro dell’informazione sulla Birmania in esilio Irrawaddy, «oggi un prigioniero politico è stato liberato, nelle carceri birmane ne restano altri 2.100».
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