“Aiutateci a non essere possibili”, hanno detto quelli che hanno coperto il loro volto per averne uno. Secondo il poeta e saggista Gabriel Zaid, si tratta della prima “guerriglia postmoderna”
“Il silenzio degli indigeni / richiese sculture”. Con questi versi Carlos Pellicer riassume il trattamento che il Messico ha riservato ai popoli originari. Non si parla di loro al tempo presente; la loro gloria risale a una fase precedente, all’epoca atemporale della leggenda. I musei e le piramidi celebrano il loro splendore passato e le città si abbelliscono di statue, ma gli indigeni di bronzo non alludono a quelli attuali: li cancellano.
Il 1 gennaio 1994 gli zapatisti si ribellarono in un paese in cui i popoli indigeni erano tagliati fuori dall’agenda politica. Il libro più noto della cultura preispanica è Il rovescio della Conquista. In quell’opera, Miguel León Portilla traduce con eloquenza un canto che parla della caduta di Tenochtitlán:
E tutto questo ci accadde.
Noi lo vedemmo, noi lo osservammo:
da questa penosa e triste sorte fummo angosciati
In Messico si parlano più di sessanta lingue indigene. Nessuna di loro ha carattere ufficiale. I discendenti di Montezuma vagano per le strade delle grandi città offrendo gomme da masticare e cianfrusaglie made in China, con la miseria come unico segno di identità. La loro “penosa e triste sorte” non è cambiata.
Nella notte del 31 dicembre 1993, ci addormentammo per sognare il progresso (il giorno dopo entrava in vigore il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti e il Canada), ma ci risvegliammo in un’altra realtà: gli zapatisti insorsero in Chiapas e la questione indigena diventò di sorprendente attualità.
Il subcomandante Marcos rinnovò il linguaggio politico con senso dell’umorismo, parabole della Bibbia, leggende maya, realismo magico e aforismi della controcultura. Alcuni dubitarono della legittimità di un intellettuale della classe media come portavoce degli indigeni. Altri decisero di prendere sul serio la sua proposta di cambiare il paese dal basso, con i più deboli. Nemico della lotta armata e della sinistra dogmatica, il poeta Octavio Paz disse che il trionfo di Marcos era un trionfo del linguaggio.
Un rito di passaggio dello zapatismo fu il dialogo con il governo
Dopo dodici giorni di combattimento, il governo di Carlos Salinas de Gortari ordinò il cessate il fuoco e l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) subì una svolta sorprendente: la guerriglia dall’aria guevarista si trasformò nel movimento politico che dura fino a oggi. Il suo obiettivo non è ottenere il potere, ma migliorare le condizioni di vita delle comunità indigene. Se ci riuscirà, tornerà a perdersi nella notte dei tempi: “Aiutateci a non essere possibili”, hanno detto quelli che hanno coperto il loro volto per averne uno.
Secondo il poeta e saggista Gabriel Zaid, si tratta della prima “guerriglia postmoderna” che non vuole agire militarmente ma rappresentare se stessa come insurrezione.
Un rito di passaggio dello zapatismo fu il dialogo con il governo. Prima di tutto bisognava definire lo scenario. Furono respinte diverse sedi fino a quando i ribelli proposero il campo da pallacanestro a San Andrés Larráinzar. Un luogo povero, dove i canestri erano senza reti. Ma era uno spazio mitico: era una nuova versione del gioco della pelota, il cortile del mondo da dove i maya assistevano alla lotta tra la notte e il giorno, tra la vita e la morte. Uno scenario del Popol Vuh che tornava insolitamente attuale.
Il 16 febbraio 1996 furono firmati gli accordi di San Andrés. Ma l’impegno a modificare la costituzione per dare diritti ai popoli indigeni finì per soccombere a un’altra tradizione messicana: l’oblio. Per entrare in vigore, il parlamento doveva trasformare gli accordi in legge, e questo non è mai accaduto. Gli accordi sono stati vittima di una classe politica convinta che, rimandando la soluzione, il problema si risolverà da solo.
Il sollevamento zapatista ha virato verso una modalità più pacata e resistente dell’epica: l’eroismo della vita quotidiana
Durante la sua campagna per la presidenza, nel canonico anno 2000, Vicente Fox promise di risolvere la questione del Chiapas in quindici minuti. Il carismatico cowboy mise fine a 71 anni di governo del Pri (il Partito rivoluzionario istituzionale), ma dimenticò le sue promesse. Nel 2001, per rinfrescargli la memoria, gli zapatisti marciarono su Città del Messico. Ricevettero dimostrazioni di sostegno da tutto il paese. Al parlamento, la comandante Ramona chiese che la casa della parola accogliesse la voce degli indigeni. Nonostante il clima favorevole, la legge sulle autonomie andò a ingrossare le file delle questioni in sospeso di un paese bipolare, dove la violenza e l’impunità coesistono con la solidarietà e la speranza.
Cosa dire nell’anniversario del movimento? L’assenza di iniziative spettacolari sembrerebbe suggerire che la sua lotta è in fase di remissione. Una visita nella zona zapatista fa giungere a un’altra conclusione. Nei municipi controllati dall’Ezln ci sono giunte di buon governo in cui si esercita una democrazia diretta, le autorità non ricevono compensi e “comandano obbedendo”. Lì la parola “io” è pronunciata meno spesso di “noi”. L’Hospital de la mujer e la Escuelita zapatista sono dimostrazioni di un sorprendente miglioramento nell’ambito della sanità e dell’istruzione, raggiunto in circostanze molto avverse. Il sollevamento zapatista ha virato verso una modalità più pacata e resistente dell’epica: l’eroismo della vita quotidiana.
I partiti non pensano più alla politica come all’arena in cui risolvere i conflitti, ma come a un business
Secondo il rapporto sulla disuguaglianza elaborato da Gerardo Esquivel per Oxfam-México, viviamo in un paese in cui l’1 per cento della popolazione detiene il 21 per cento della ricchezza e il 10 per cento ha il 64 per cento. Il divario sta aumentando: a livello mondiale, la quantità di milionari è diminuita dello 0,3 per cento dal 2007 al 2012. In questo stesso periodo, in Messico i milionari sono aumentati del 32 per cento.
A quindici anni dall’inizio dell’alternanza democratica, i partiti non pensano più alla politica come all’arena in cui risolvere i conflitti, ma come a un business in cui i conflitti devono essere mantenuti. Ogni anno decidono di assegnarsi più di 300 milioni di dollari.
Lontani dall’attenzione dei mezzi di informazione, nelle loro cinque comunità ocaracoles, gli zapatisti reinventano i giorni. La loro capacità di riflessione non è da meno: nel maggio del 2015 hanno convocato il seminario internazionale Il pensiero critico davanti all’idra del capitalismo.
A proposito dell’utopia, Marcos riferisce un insegnamento del vecchio Antonio: una stella misura ciò che è lontano; una mano, forma umana della stella, misura ciò che è vicino per arrivare lontano.
Paradosso zapatista: la meta irraggiungibile è a portata di mano.
(Traduzione di Francesca Rossetti)
Questo articolo è stato pubblicato su El País.
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