Intervista a Naomi Klein. «Se permetteremo la crescita delle temperature, non dovremo fare i conti solo con un clima estremo, ma anche con un mondo più estremo»
PARIGI. Abbiamo incontrato la giornalista e attivista canadese Naomi Klein a Parigi, all’indomani dell’approvazione dell’accordo intergovernativo, sottoscritto alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici Cop21.
Come valuti gli esiti di due settimane di negoziati.
Credo che oggi siamo arrivati a un momento chiarificatore. Non siamo venuti qui a pregare i leader di salvare il mondo, perché abbiamo gli occhi ben aperti e sappiamo che ciò che hanno portato al tavolo dei negoziati non ci condurrà ad alcuna soluzione definitiva. C’è ancora un’enorme distanza tra quello che tutti dicono si dovrebbe fare per abbassare le emissioni e per mantenere le temperature al di sotto dell’incremento di un grado e mezzo, da una parte, e quello che sono effettivamente disposti a fare, e il modo in cui si intende procedere, dall’altra. Versione dopo versione, fino al testo finale dell’accordo, non vi è nulla di decisivo sui combustibili fossili, rispetto alla necessità di lasciare nel sottosuolo gran parte delle riserve esistenti di carbone, petrolio e gas naturale. Ma la gente che ha riempito le piazze, qui a Parigi, non si sta piangendo addosso, non è disperata. Siamo invece ben consapevoli che dobbiamo lavorare ancora più duramente. E dobbiamo essere noi a fare quello che i politici non vogliono fare.
Nonostante la situazione creatasi dopo le stragi del 13 novembre, decine di migliaia di persone, dalla Francia e dal Nord Europa, con significative presenze dal Sud del mondo e dal Nord America, hanno reso sabato evidente l’esistenza di un movimento planetario per la “giustizia climatica”, forse oggi l’unico movimento sociale di scala globale. Come può riuscire a essere davvero incisivo?
Dobbiamo accrescere la nostra forza. E come si possa fare, per riuscire a condizionare le scelte delle multinazionali, l’abbiamo già visto: per le strade, nelle foreste, sui mari. Come gli attivisti in kayak che hanno circondato le piattaforme petrolifere della Shell, costringendola a cessare le trivellazioni in Artico e in Alaska, per non vedere la propria immagina rovinata. O nel caso dell’oleodotto Keystone XL, e di tutte le pipe-line legate all’industria estrattiva delle «sabbie bituminose», ogni singolo tratto ha dovuto fare i conti con le forti proteste di ogni singola comunità locale. A partire da queste esperienze, dobbiamo essere capaci di creare coalizioni sempre più ampie, di cambiare il modo con cui l’attivismo si presenta all’esterno, di esprimere la stessa varietà e diversità che si vede nelle nostre città e territori. Lo sapevamo anche prima, ma ora è più chiaro: non abbiamo dei leader che agiranno per l’ambiente, dobbiamo farlo noi in prima persona.
La leadership deve venire dal basso, dalle comunità. Praticando azioni dirette.
Azioni che devono diventare visibili, nei mercati finanziari e nei tribunali: disinvestire nelle aziende che estraggono combustibili fossili, farli apparire investimenti rischiosi, denunciare le bugie e la disonestà di corporation come la Exxon, portarle davanti ai giudici, dimostrando che conoscevano gli effetti del cambiamento climatico e che hanno mentito di proposito. Dobbiamo cambiare la dinamica, indebolendo il potere degli interessi che stiamo combattendo.
Parigi è stato lo scenario su cui si sono confrontate le scelte politiche dei governi nazionali, il ruolo giocato dalla grandi imprese impegnate, a suon di sponsorizzazioni (penso al ruolo di Total e dell’italiana Eni, contestate da una riuscita protesta all’interno del Louvre), a rifarsi un’immagine “verde”, e l’azione dei movimenti. Con quale bilancio?
Le ultime due settimane ci hanno offerto proprio lo scontro con quelle «soluzioni», offerte dalle multinazionali, che non sono affatto soluzioni. E che non avranno alcun effetto reale sulle emissioni. Continueranno invece ad arricchire le élite esistenti, le stesse che commerciano sementi ogm, l’industria nucleare, petrolifera. E anche qui hanno usato Le Bourget come il loro megafono, mentre il governo francese ha cercato di imbavagliare chi proponeva soluzioni diverse, come chi si batte per la giustizia energetica, un’agricoltura ecologica e il trasporto pubblico, la proprietà e il controllo delle comunità sulle fonti di energia rinnovabili. Invece abbiamo sentito parlare Bill Gates e Richard Branson, mentre mettevano il bavaglio alle proteste.
Non è servito a niente, perché le persone erano determinate a scendere in piazza comunque. Il governo francese ha capito che non poteva sostenere politicamente questa scelta. E che scontri con la polizia nell’ultimo giorno di Cop 21 sarebbero stati un disastro per la propria immagine. Per questo, qui a Parigi, hanno dovuto sospendere loro malgrado il divieto a manifestare. E, probabilmente, chiudere al traffico una strada piena di negozi in un sabato pomeriggio pre-natalizio ha fatto di più per la riduzione delle emissioni, di quanto non abbiano realizzato loro alla Conferenza.
Ci viene detto che siamo in uno «stato di guerra», stiamo forse entrando in un periodo di guerre per il clima?
Il cambiamento climatico ha già contributo a innescare la guerra civile in Siria, che aveva appena sperimentato la più terribile siccità della sua storia recente, con conseguente carestia che ha prodotto migrazioni interne, che hanno coinvolto quasi due milioni di persone. E quando c’è scarsità di risorse si creano inevitabilmente nuove tensioni, che sono andate a sommarsi ai conflitti già esistenti in quella regione, causati a loro volta storicamente dalla lotta per impadronirsi delle risorse energetiche. Si crea perciò un effetto a tenaglia: da un lato l’effetto destabilizzante della caccia ai combustibili fossili, dall’altro gli effetti destabilizzanti prodotti dall’utilizzo di quegli stessi combustibili.
Quando parliamo di cambiamenti climatici, questi provocano non solo un clima più caldo o l’innalzamento del livello dei mari: provocano anche un’epoca più crudele.
Una situazione di scarsità come questa non può che creare ulteriori conflitti. Ricordiamo perciò sempre che, se permetteremo la continua crescita delle temperature, non dovremo fare i conti solo con un clima estremo, ma anche con un mondo più estremo.
Si ringraziano per la collaborazione Niccolò Milanese di European Alternatives, Marica Di Pierri di A Sud e Barbara Del Mercato di «Venezia in comune»
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