L’esperienza poco conosciuta di Giuseppe Di Vittorio al consiglio comunale della capitale. E quella Lista Cittadina che negli anni ’50 primeggiò nelle urne
Non è forse un caso – e se lo è, si tratta di un caso felice – che proprio in queste settimane sia disponibile per il lettore un agile volume che tratta della candidatura di Giuseppe Di Vittorio al Consiglio comunale di Roma nella tornata amministrativa del 1952. E così Ilaria Romeo e Giuseppe Sircana, con il loro Una questione capitale. Di Vittorio in Campidoglio 1952–1957 (presentazione di Walter Veltroni, introduzione di Adolfo Pepe, Ediesse, Roma, 134 pp.) ricostruiscono un caso poco noto della nostra storia politica, attingendo alla stampa dell’epoca e avvalendosi di fondi d’archivio depositati presso la Fondazione Di Vittorio: notevole, in proposito, l’appendice documentaria, che riporta per intero materiale della campagne elettorale, atti del Campidoglio e documentazione di prima mano proveniente dalle carte dello stesso Di Vittorio.
Il volume è in realtà composto da due saggi, in costante dialogo tra loro. Nel primo, Sircana illustra il contesto generale, anche internazionale, della vicenda; mentre, nel secondo, Romeo si concentra sulla specificità del Di Vittorio “romano”, con un rapido excursus dai tempi della sua prima elezione nel parlamento pre-fascista.
Siamo nel clima dell’“operazione Sturzo”, ossia del tentativo del “partito Romano”, direttamente influenzato dal Papa, di mettere in piedi una lista per le amministrative romane del ’52 che, capeggiata dall’ormai anziano Don Luigi Sturzo, riunisse il blocco centrista al potere al governo nazionale e lo allargasse al mondo monarchico e neo-fascista. Il tentativo provocò malumori in settori della stessa Dc – i rapporti tra De Gasperi e Pio XII si interruppero a causa degli strascichi di quella vicenda –, per non parlare dei partner di governo repubblicani e saragatiani allora alleati nel quadripartito. E incontrò la ferma e allarmata opposizione dei partiti del movimento operaio, che si rinsaldarono attorno ad una unitaria Lista cittadina (un’immagine stilizzata del Campidoglio ne fu il simbolo), capeggiata dal vecchio Nitti e formata da comunisti, socialisti e personalità del mondo laico e della cultura.
Siamo al culmine del centrismo degasperiano, e gli scricchiolii di quel sistema di governo già si erano fatti evidenti in precedenti tornate elettorali. Mentre i partiti del movimento operaio avevano tutt’altro che perso ascendente sulle classi subalterne, il blocco centrista si sgretolava: spezzoni massicci di gruppi dirigenti tradizionali e delle loro clientele guardavano a destra, insoddisfatti per la (per loro) troppo timida azione anticomunista di De Gasperi, e per l’altrettanto timida riforma agraria in via di allestimento; altre parti del ceto medio viravano a sinistra, insoddisfatte della propria condizione materiale e coscienti che alla fin fine il diavolo social-comunista non era così brutto come glielo avevano dipinto il 18 aprile. Proprio in riferimento a questo sfaldamento del centrismo, suggeriscono gli autori, ebbe maggior successo la candidatura di Di Vittorio, che attraverso il suo prestigio convogliò sulla lista di sinistra per la prima volta il voto dei lavoratori statali, su un programma più generale incentrato sulla riqualificazione urbana e l’industrializzazione di Roma, secondo il leader della Cgil non votata come per destino alla rendita parassitaria turistica e immobiliare.
L’“operazione Sturzo” non andò in porto: la Dc riunì il quadripartito assieme a Psdi, Pri e Pli e, pur sconfitta in voti assoluti, per il gioco degli apparentamenti si garantì la maggioranza in Campidoglio senza l’apporto monarchico-missino, contro la Lista Cittadina primeggiante in voti. Di Vittorio risultò il candidato di opposizione più votato, e si impegnò assiduamente a Roma per affermare le sue caratteristiche linee programmatiche. La morte lo colse, nel 1957, da consigliere comunale, in amaro dissidio con il proprio partito, per la sua mancata riproposizione come capo-lista nella tornata del ’57 e per il successivo scontro sulla tragedia ungherese.
Non è questo lo spazio per discettare sull’attualità o meno del programma per Roma di Di Vittorio e della Cgil dell’epoca (programma riportato nell’appendice). Ma senz’altro da valorizzare ancor oggi di quella esperienza è il metodo: la battaglia al Comune come parte di una lotta più generale, non slegata dagli indirizzi generali del Paese; la ferma identificazione tra candidato e interessi sociali che si intende promuovere; il nesso insomma tra “politica” e “popolo”. Oggi sono forse venute meno personalità dello stampo di Di Vittorio, ma esse non nascevano dal nulla, erano portatrici dirette, in senso quasi antropologico, della storia e delle aspirazioni delle classi subalterne. E’ questo circolo virtuoso a dover essere innanzi tutto ricostruito.
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