ETIENNE Balibar


In un continente come quello europeo dove la difesa della legalità  e dell’ordine costituito viene servita con la salsa velenosa del populismo mediatico, due recenti libri del filosofo francese pongono con forza il nesso imprescindibile tra libertà  e eguaglianza in una rinnovata politica della «rivoluzione». Oggi a Roma lo studioso terrà  una conferenza sull’Europa alla Fondazione Basso


In un continente come quello europeo dove la difesa della legalità  e dell’ordine costituito viene servita con la salsa velenosa del populismo mediatico, due recenti libri del filosofo francese pongono con forza il nesso imprescindibile tra libertà  e eguaglianza in una rinnovata politica della «rivoluzione». Oggi a Roma lo studioso terrà  una conferenza sull’Europa alla Fondazione Basso
«Signor professore, lei è disonorato». La lettera firmata nel giugno 2006 da Nicolas Sarkozy, allora ministro degli interni, venne inviata a Etienne Balibar qualche giorno dopo la pubblicazione dell’appello «Perché non esistono le specie umane» in cui chiedeva al governo di rinunciare all’arresto dei bambini immigrati condannati all’espulsione dal territorio francese. I promotori dell’appello misero in guardia contro una politica, quella dell’«immigrazione scelta» o selettiva, che riproduceva ad un altro livello, e in maniera infinitamente distante, l’idea di una diseguaglianza nell’accesso ai diritti fondamentali fondata sulle differenze sociali e antropologiche prospettata dal nazismo. Per Sarkozy quelle espulsioni rispettavano la legge e l’interesse nazionale, proprio come ha continuato a fare con centinaia di rom dopo essere stato eletto alla presidenza della Repubblica. Ma per lui, figlio di un ebreo ungherese, il paragone tra il razzismo di stato e le pratiche naziste resta intollerabile e per questa ragione continua a disonorare il proprio paese e tutti coloro che si oppongono alle sue scelte.
La brutalità della destra europea, accresciuta dal risentimento delle classi dirigenti contro i rom, i poveri, i migranti e i giovani, ci ha abituato a questo uso opportunistico della legalità costituzionale. Quello che stupisce non è l’oscillazione nella carriera di un politico tra il «sicuritarismo» e una cultura delle regole e del bene comune (è il caso di Sarkozy in Francia, come quello di Gianfranco Fini in Italia, sia pure in ordine simmetricamente inverso), ma che in un paese come l’Italia nessun intellettuale sia stato disonorato da un ministro o da un presidente per avere trovato legittimi, e coerenti, gli atti di resistenza civile, di insubordinazione o di insurrezione quando le banlieue sono esplose nel 2005, i migranti africani di Rosarno si sono difesi contro i pogrom della ‘ndrangheta o quelli pakistani hanno scalato una gru a Brescia per chiedere il permesso di soggiorno.
Spiegare questa assenza con l’idea che gli intellettuali francesi siano abituati a sottoscrivere appelli, mentre quegli italiani ascoltano solo gli umori del Palazzo, è poco credibile. Questa caricatura dei rapporti geofilosofici in Europa non ha più filo, ammesso che l’abbia mai avuto. Ora che dal Palazzo provengono solo gemiti, non le trame oscure denunciate da Pasolini, gli intellettuali italiani hanno fortunatamente smesso i panni dei profeti (non tutti, a dire la verità) e sottoscrivono manifesti in difesa della legalità, auspicando inconsapevolmente un populismo penale (la definizione è di Luigi Ferrajoli) da usare con l’amabile moderazione dell’amor patrio.
La vuota retorica dei diritti
Limitare il gesto di Balibar – non l’unico, perché altrettanto coraggiosa fu la sua polemica contro la politica sui migranti dei comunisti francesi che gli costò nel 1981 l’espulsione dal Pcf – al gesto parresiastico di un intellettuale dedito alla difesa dei diritti umani, non rende giustizia alla viva intelligenza materialistica di un’opera che oggi conosce con La proposition de l’égaliberté (una raccolta di saggi dal 1989 al 2009, Puf, pp. 358, euro 29, da leggere insieme al solidissimo Violence et civilité, Galilée, pp. 417, euro 35, pubblicato sempre quest’anno) un salto di qualità in un’opera ormai quarantennale. 
Al nostro dibattito politico irrorato nelle ultime settimane da un desiderio di normalità gioverà, forse, apprendere che gli universali vuoti rappresentati dalla «cittadinanza», dal «repubblicanesimo», dalla «riscossa civica» e dai «diritti civili» non garantiscono alcun rispetto della legge, ma producono contraddizioni nello Stato-Nazione europeo. Solidamente inscritte nella tradizione democratica – intesa sempre più nella sua valenza formale, insapore come il tofu e bipartisan nell’applicazione delle procedure – l’uso quotidiano di queste categorie politiche ha rimosso l’intima forza sovversiva della democrazia. 
Il lavoro di scavo storico-politico che Balibar ha intrapreso nel ventennio della «post-democrazia», iniziato con il crollo del Muro di Berlino e terminato con quello del capitalismo finanziario neoliberista nel 2008, si è concentrato sulla rivoluzione francese. Al tempo del tramonto delle ortodossie postcomuniste, l’abbandono dell’ottobre bolscevico a Balibar è costato più di una polemica a sinistra. Ma la sua scelta raccoglie oggi la richiesta diffusa di rifondare le condizione politiche della democrazia a partire dal riconoscimento dei diritti sociali degli individui intesi come diritti fondamentali di nuovo genere. In questa nuova cornice viene prospettato un nuovo rapporto tra i diritti civili (sanciti dalla costituzione del 1789) e i diritti sociali (quelli della costituzione del 1793). Da sempre antagonisti, al punto che ancora oggi i partiti di destra e di sinistra privilegiano la «libertà» ai danni dell’«uguaglianza» per definire la loro offerta programmatica, oggi libertà e uguaglianza – l’«ega-libertà» di Balibar – possono essere considerati sullo stesso piano di immanenza e dare forma ad un nuovo modello di «cittadinanza sociale».
Ciò che la rivoluzione francese ha soltanto enunciato – l’esistenza di una contraddizione in termini: la sovranità ugualitaria, l’Uno è uguale ai molti, i molti governano se stessi e gli altri, compreso il monarca – oggi si esprime negli atti di insubordinazione e di insurrezione di chi rivendica i propri diritti di libertà e lotta per i diritti sociali dell’uguaglianza. Nessuno può vantare una «competenza» sulla vita di chiunque, tutti però possono creare la libertà degli uguali in un governo, in un’istituzione, in una regola da condividere. 
I migranti di Brescia, gli operai schiacciati dalla crisi, gli studenti e i ricercatori che difendono un sistema della formazione pubblico, gli insorti francesi contro la riforma sarkozista delle pensioni, sono alcuni dei soggetti schierati contro l’idea di una democrazia «meritocratica» e selettivamente aperta alle «competenze» dei più capaci. Non sono semplicemente «minoranze», come sostengono i malinconici teorici della «grande politica», né solo «persone» che chiedono il rispetto del diverso in nome di una comunità nazionale, ma forze che praticano una contro-democrazia e un contro-potere rispetto a chi esercita il potere in nome del popolo. 
Il diritto di avere diritti
Spiegare questa contraddizione politica – e non semplicemente «performativa», cioè utile alla ricomposizione del sistema -, questa linea verticale di divisione nel cuore della città tra fratelli e amici (e non solo tra estranei e nemici) oggi sembra essere quasi impossibile. La filosofia politica, la scienza giuridica, e non solo la società politico-mediatica, sono impregnate a tal punto degli imperativi dell’ordine e della legalità, o del rimpianto della loro mancanza in un’epoca «post-storica», da essere paralizzati in attesa di un’apocalisse che non arriverà mai. Nessuno sembra mostrare il desiderio di comprendere che il primo «movimento della vita» (della cittadinanza, per Balibar) consiste nella richiesta di «avere diritto ai diritti» e nella critica della legittimità della legge – di qualsiasi diritto, potere o Stato – o nemico – dalla vita dei singoli. 
Racaille, «feccia», immondizia. Con questa volgarità da bordello e da tecnocrate addetto al ciclo degli «scarti sociali» (ma purtroppo è questa la missione che l’Europa ha imposto alla sua agenda per il 2020) Sarkozy ha definito gli insorti delle banlieue francesi. Balibar non li idealizza, al contrario ne ha criticato duramente gli aspetti machisti. In questi ed altri atti di resistenza e di insurrezione ricorrenti nelle azioni dei francesi di seconda o terza generazione come in quelle degli europei nati a partire dagli anni Settanta viene avanzata la richiesta di giustizia sociale e di nuove forme di vita in comune. 
Intrecciando la lettura di questo luminoso volume sull’ega-libertà con quella di Violence et civilité, ecco emergere il problema della democrazia: ordine e anarchia possono coesistere? Le politiche neoliberiste hanno depotenziato questa antinomia, sciogliendola nell’alternativa tra un desiderio narcisistico che porta al disordine e la necessità di proteggere un sistema dall’istinto di morte. Balibar, invece, riconduce la violenza – che è in primo luogo violenza della democrazia sugli esclusi – ad un processo di democratizzazione agito direttamente dai cittadini. Questo processo di democratizzazione della democrazia trasforma gli attori in soggetti, riconducendo la potenza e l’istinto di morte ad una dialettica politica produttrice di nuovi diritti, poteri e democrazia. Sperare che il neo-liberismo, come la maggioranza delle culture politiche sul mercato, comprendano questo altissimo esercizio politico è impresa inutile. L’intollerabile vissuto dagli esclusi, anche quando non assume le forme estreme dei fuochi nella notte, è indicibile per chi invece teorizza la libertà dei pochi, competenti e meritevoli. 
La virtù dell’insubordinazione
Il riformista riconduce l’insicurezza ad un ordine tollerabile, il conservatore si limita ad evocare l’eredità maestosa della legge, mentre il radicale auspica che la rivolta sia l’alba di una nuova autorità – o forse la sua definitiva abolizione. Balibar indica invece un altro percorso. Non è esatto definire la sua politica democratica come una «democrazia insorgente» e nemmeno «radicale». Sono ipotesi, diffuse nel dibattito politico a sinistra, che accreditano la «tesi di Bernstein», la politica è perpetuo movimento. Bisogna invece puntare sulla contraddizione e sulla sua esplosione. Sulla dura e inflessibile materialità della politica, sul dire no all’oppressione, sulla resistenza al potere. In tempi in cui Machiavelli viene citato a sproposito – come padre del «patriottismo repubblicano» – recuperiamo le giuste categorie che altri usano seguendo i fili della convenienza politica. Democrazia è capacità di insubordinazione che esercita una forza distruttrice e crea una «virtù politica» costruttrice. E’ in questo doppio movimento immanente, affermativo e negativo, che la politica traduce il suo sforzo di includere gli esclusi, distruggendo uno Stato oligarchico e autoritario fondato sul monopolio del potere degli esperti (i «professionisti della politica», i «tecnici», i «moderati») nascosti dietro le retoriche del populismo e della demagogia patriottarda. 
Che cosa vede allora questa politica democratica che afferma la necessità di una «teoria della rivoluzione»? Non un nuovo soggetto, una nuova «classe», l’araba fenice di un proletariato vittorioso. Balibar è saltato da tempo da questo treno. Per lui alla fine, come all’inizio, non esiste alcun soggetto presupposto, un popolo o una sostanza che resiste al perpetuo movimento della politica e promette la salvezza dalla crisi. La democrazia – se esiste – è quella che viene, non quella che si vuole riformare, riscrivere, rimodellare solo per via legislativa. Essa si misura a partire dallo spessore incomprimibile delle relazioni sociali, politiche e giuridiche istituite da chi chiede di avere diritto ad avere diritti. È al coraggio di questi singoli che la democrazia deve rispondere. Senza la loro intensità non sarà possibile una politica fondata sulla «con-cittadinanza», quella «comunità» di concittadini che attraversa le frontiere e rivendica il torto di chi non ha una parte nella democrazia.

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