Il pensatore si proponeva come guida filosofica del Terzo Reich. Un giudizio a due facce Definiva «barbarico» il partito della svastica ma in ciò vedeva anche la sua potenziale grandezza se si fosse sbarazzato del «torbido biologismo»
«Il nazionalsocialismo è un principio barbarico ». È questa una delle sentenze più famose — ma anche più fraintese — dei Quaderni neri 1931-1938 , che stanno per uscire in italiano per la casa editrice Bompiani. Li ha tradotti con rigore e fedeltà Alessandra Iadicicco, che nella sua «Avvertenza» si sofferma giustamente sulla «complessità» delle annotazioni e sulla «profondità del loro respiro teoretico». Vale la pena sottolineare che la traduzione italiana è la prima nel mondo — a indicare non solo l’interesse diffuso per questo tema, che ha coinvolto un pubblico molto vasto, ma anche la capacità della cultura italiana di accogliere temi e questioni, che vengono da fuori, rendendosi tuttavia protagonista del dibattito.
I Quaderni neri 1931-1938 — che nella Gesamtausgabe , nell’opera completa, costituiscono il volume 94 — sono anzitutto un diario filosofico in cui Martin Heidegger riflette anno per anno, mese per mese, talvolta giorno per giorno, sugli avvenimenti politici più significativi. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che quello è il tempo in cui la Germania è attesa sulla scena della storia, per cambiarne il corso, per salvare l’Occidente. Heidegger ne è convinto, così come d’altra parte è certo che nessun cambiamento potrà esserci senza la filosofia. Tanto più che la Germania è il paese di Dichter und Denker , di «poeti e pensatori». Dovranno essere loro — anche a costo di «errare» — l’avanguardia del nuovo movimento.
Già, però, nel 1932 Heidegger annota: Führer-sein , «Essere-capo — non: precedere, bensì poter procedere da soli». Si delinea sin dall’inizio un dissidio, destinato ad acuirsi con il tempo, non tra politica e filosofia, come si è sempre creduto, bensì tra due modi profondamente diversi di intendere quel mutamento radicale che sta per compiersi nella storia tedesca.
Le pagine dei Quaderni neri 1931-1938 sfatano definitivamente un mito: che Heidegger abbia aderito solo per pochi mesi al nazionalsocialismo, tra il 1933 e il 1934, e che il periodo del rettorato abbia costituito un intermezzo politico. Non è così. La sua adesione è piena, il suo impegno si prolunga nel tempo, per tutti gli anni Trenta e oltre. Né c’è alcuno iato, per lui, tra politica e filosofia. La difficoltà personale di ricoprire una carica pubblica — «spinto all’assunzione del rettorato agisco per la prima volta contro la voce più intima» — è giustificata dalla «incomparabilità dell’ora mondiale». E anche più tardi, dopo le dimissioni, Heidegger rivendica quella scelta: «si crede che il mio “discorso del rettorato” non faccia parte della mia filosofia; posto che io ne abbia una. Eppure in esso si enuncia qualcosa di essenziale». L’errore è stato piuttosto quello di supporre che all’università tedesca vi fosse una «generazione nascosta» in grado di interrogarsi, compiendo perciò su di sé un lavoro di trasformazione interiore.
Sebbene la vicenda del rettorato, com’è facile immaginare, occupi una parte rilevante dei Quaderni neri 1931-1938 , numerosi e vari sono i temi trattati. Vanno da una ripresa della propria opera, in particolare Essere e tempo , il capolavoro mai portato a termine, alla interpretazione della poesia di Friedrich Hölderlin, cui in quegli anni Heidegger dedica alcuni corsi universitari, fino ai temi più noti, quali la critica alla metafisica e l’insistenza sull’oblio dell’Essere, quella dimenticanza per cui tutti, nella tarda modernità, nell’epoca della tecnica, vivono dispersi tra gli enti, quasi in un sonno ontico.
La filosofia, ricordando l’Essere, ridestando da quel sonno, assume un valore esortativo, un ruolo liberatorio. «Il filosofo non è mai fondatore — egli salta innanzi e se ne sta là da una parte e fomenta la chiarezza del domandare e protegge la durezza del concetto». Molte pagine di questi primi Quaderni neri sono dedicate alla riflessione sulla filosofia, una riflessione che, dopo il 1934, l’anno della crisi, diventa una strenua, aspra e indignata difesa. La politica che non è filosofica, che vuole, anzi, essere svincolata dalla filosofia, finisce per essere «nient’altro che le chiacchiere e lo strepito da dilettanti della “scienza politica”». Di più: finisce per ridursi a strumento della tecnica. « La nuova politica è un’intima conseguenza essenziale della “tecnica” ».
Ecco che cosa distingue il nazionalsocialismo nel modo in cui lo intende Heidegger, pronto a essere guida filosofica del movimento, da quel nazionalsocialismo che pretenderebbe di non avere nulla a che fare con la «teoria», che richiamandosi a Mein Kampf vuole essere «azione», che in fondo condivide la ideologia di un « torbido biologismo », che insomma filosoficamente non solo non è nulla di nuovo, ma è un inconsapevole scientismo a buon mercato. «Oggi si può già parlare di un “nazionalsocialismo volgare” ; con ciò intendo il mondo, i parametri, le pretese e l’atteggiamento del gazzettiere e del professionista della cultura».
È in tale contesto che Heidegger scrive: «Il nazionalsocialismo è un principio barbarico . Questo è il suo tratto essenziale e la sua possibile grandezza. Il pericolo non sta nel nazionalsocialismo stesso, bensì nel fatto che esso venga minimizzato a una predica su ciò che è vero, buono, bello (così si è detto nel corso di una serata educativa). E nel fatto che quelli che vogliono fare la sua filosofia, a tal fine non ricorrono a niente altro che alla ben nota “logica” del pensiero comune e della scienza esatta».
Heidegger non si chiama fuori. Non c’è traccia di una presa di distanza dal «nazionalsocialismo», visto come movimento che sa rispondere all’urgenza politica del momento; piuttosto il contrasto sta nel modo di concepirlo. Solo se sarà sostenuto e «guidato» da una filosofia, in grado di attraversare la notte dell’Essere, e di avviarsi verso l’alba di un «altro inizio», quel «socialismo nazionale» potrà rappresentare il nuovo movimento politico capace di coinvolgere il «popolo» tedesco e farne l’avanguardia dei popoli europei.
Con il passare degli anni, mentre appare evidente che questa missione affidata al popolo tedesco è condannata al fallimento, Heidegger resta, malgrado tutto, nel suo avamposto filosofico.
I Quaderni neri 1931-1938 — che nella Gesamtausgabe , nell’opera completa, costituiscono il volume 94 — sono anzitutto un diario filosofico in cui Martin Heidegger riflette anno per anno, mese per mese, talvolta giorno per giorno, sugli avvenimenti politici più significativi. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che quello è il tempo in cui la Germania è attesa sulla scena della storia, per cambiarne il corso, per salvare l’Occidente. Heidegger ne è convinto, così come d’altra parte è certo che nessun cambiamento potrà esserci senza la filosofia. Tanto più che la Germania è il paese di Dichter und Denker , di «poeti e pensatori». Dovranno essere loro — anche a costo di «errare» — l’avanguardia del nuovo movimento.
Già, però, nel 1932 Heidegger annota: Führer-sein , «Essere-capo — non: precedere, bensì poter procedere da soli». Si delinea sin dall’inizio un dissidio, destinato ad acuirsi con il tempo, non tra politica e filosofia, come si è sempre creduto, bensì tra due modi profondamente diversi di intendere quel mutamento radicale che sta per compiersi nella storia tedesca.
Le pagine dei Quaderni neri 1931-1938 sfatano definitivamente un mito: che Heidegger abbia aderito solo per pochi mesi al nazionalsocialismo, tra il 1933 e il 1934, e che il periodo del rettorato abbia costituito un intermezzo politico. Non è così. La sua adesione è piena, il suo impegno si prolunga nel tempo, per tutti gli anni Trenta e oltre. Né c’è alcuno iato, per lui, tra politica e filosofia. La difficoltà personale di ricoprire una carica pubblica — «spinto all’assunzione del rettorato agisco per la prima volta contro la voce più intima» — è giustificata dalla «incomparabilità dell’ora mondiale». E anche più tardi, dopo le dimissioni, Heidegger rivendica quella scelta: «si crede che il mio “discorso del rettorato” non faccia parte della mia filosofia; posto che io ne abbia una. Eppure in esso si enuncia qualcosa di essenziale». L’errore è stato piuttosto quello di supporre che all’università tedesca vi fosse una «generazione nascosta» in grado di interrogarsi, compiendo perciò su di sé un lavoro di trasformazione interiore.
Sebbene la vicenda del rettorato, com’è facile immaginare, occupi una parte rilevante dei Quaderni neri 1931-1938 , numerosi e vari sono i temi trattati. Vanno da una ripresa della propria opera, in particolare Essere e tempo , il capolavoro mai portato a termine, alla interpretazione della poesia di Friedrich Hölderlin, cui in quegli anni Heidegger dedica alcuni corsi universitari, fino ai temi più noti, quali la critica alla metafisica e l’insistenza sull’oblio dell’Essere, quella dimenticanza per cui tutti, nella tarda modernità, nell’epoca della tecnica, vivono dispersi tra gli enti, quasi in un sonno ontico.
La filosofia, ricordando l’Essere, ridestando da quel sonno, assume un valore esortativo, un ruolo liberatorio. «Il filosofo non è mai fondatore — egli salta innanzi e se ne sta là da una parte e fomenta la chiarezza del domandare e protegge la durezza del concetto». Molte pagine di questi primi Quaderni neri sono dedicate alla riflessione sulla filosofia, una riflessione che, dopo il 1934, l’anno della crisi, diventa una strenua, aspra e indignata difesa. La politica che non è filosofica, che vuole, anzi, essere svincolata dalla filosofia, finisce per essere «nient’altro che le chiacchiere e lo strepito da dilettanti della “scienza politica”». Di più: finisce per ridursi a strumento della tecnica. « La nuova politica è un’intima conseguenza essenziale della “tecnica” ».
Ecco che cosa distingue il nazionalsocialismo nel modo in cui lo intende Heidegger, pronto a essere guida filosofica del movimento, da quel nazionalsocialismo che pretenderebbe di non avere nulla a che fare con la «teoria», che richiamandosi a Mein Kampf vuole essere «azione», che in fondo condivide la ideologia di un « torbido biologismo », che insomma filosoficamente non solo non è nulla di nuovo, ma è un inconsapevole scientismo a buon mercato. «Oggi si può già parlare di un “nazionalsocialismo volgare” ; con ciò intendo il mondo, i parametri, le pretese e l’atteggiamento del gazzettiere e del professionista della cultura».
È in tale contesto che Heidegger scrive: «Il nazionalsocialismo è un principio barbarico . Questo è il suo tratto essenziale e la sua possibile grandezza. Il pericolo non sta nel nazionalsocialismo stesso, bensì nel fatto che esso venga minimizzato a una predica su ciò che è vero, buono, bello (così si è detto nel corso di una serata educativa). E nel fatto che quelli che vogliono fare la sua filosofia, a tal fine non ricorrono a niente altro che alla ben nota “logica” del pensiero comune e della scienza esatta».
Heidegger non si chiama fuori. Non c’è traccia di una presa di distanza dal «nazionalsocialismo», visto come movimento che sa rispondere all’urgenza politica del momento; piuttosto il contrasto sta nel modo di concepirlo. Solo se sarà sostenuto e «guidato» da una filosofia, in grado di attraversare la notte dell’Essere, e di avviarsi verso l’alba di un «altro inizio», quel «socialismo nazionale» potrà rappresentare il nuovo movimento politico capace di coinvolgere il «popolo» tedesco e farne l’avanguardia dei popoli europei.
Con il passare degli anni, mentre appare evidente che questa missione affidata al popolo tedesco è condannata al fallimento, Heidegger resta, malgrado tutto, nel suo avamposto filosofico.
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