Anni Settanta, sogni e barricate

come scrive Roberto Esposito con una formula che non mi stanco mai di ripetere, «l’esistenza non può essere declinata che alla prima persona plurale: noi siamo»

Ecco che ritornano, i protagonisti di «Ecce bombo», ad aspettare inutilmente l’alba sulla spiaggia di Ostia: quasi trent’anni dopo, sono di nuovo sugli schermi cinematografici italiani a ricordarci che il sol dell’avvenire è alle nostre spalle, ma che forse i tanto vituperati e rimossi anni Settanta hanno ancora qualcosa da dirci. Del resto, Nanni Moretti e compagni non sono i soli revenants di quel decennio. Daniele Sepe, infatti, ha appena fatto uscire un cd dal titolo «Suonarne uno per educarne cento», zeppo di temi e suoni ”anni Settanta” e io, che in fatto di musica sono rimasto drammaticamente «congelato» al 1978, posso oggi parlare dei Van der Graaf Generator, dei King Crimson o dei Soft Machine con un numero sempre maggiore di ventenni. Non basta. Complice il trentennale del Movimento del Settantasette, si annunciano anche diversi libri su quell’anno insieme tragico e creativo: da quello di Stefano Cappellini, 77. Kronake di un anno vissuto con rabbia (Sperling & Kupfer), a quello di Lucia Annunziata, 1977, l’anno in cui l’Italia finì (Einaudi), ad Ali di piombo di Concetto Vecchio (Bur), mentre per marzo Rizzoli annuncia un’antologia curata da Vincino sull’esperienza di uno strepitoso giornale satirico come «Il Male». È il ritorno dei Settanta, insomma. Ed era ora. Non perché quegli anni meritino di essere scioccamente e pomposamente celebrati, ma perché sono stati talmente densi da essere diventati un «buco nero» in cui nessuno ha più voluto rimettere seriamente le mani per timore di venire risucchiato dalla loro spaventosa forza di gravità. Così, oggi si ricordano solo il piombo, gli attentati, il terrorismo, le stragi, proiettando su «tutto» quel periodo le tragedie e le lacerazioni che caratterizzarono il suo epilogo, dimenticando che (come sa chiunque li abbia vissuti) quelli furono «anche» anni di grande divertimento e di intense esperienze umane e culturali. Risultato: se n’è persa quasi del tutto la memoria storica, tanto che meno di dieci giorni fa la stragrande maggioranza degli studenti intervistati per un’inchiesta sociologica ha potuto dichiarare che la strage di piazza Fontana a Milano fu opera delle Brigate Rosse. Insomma, come ha scritto Stefano Tassinari, quegli anni vengono giudicati a partire solo dagli effetti e non dalle cause. Perfino la loro ricostruzione storiografica è approssimativa e spesso falsa: ne sono una spia gli articoli di Pierluigi Battista sul «Corriere della sera», che li descrive come «un decennio totalitariamente invaso dalla violenza, un decennio orribile, di straordinaria cupezza, di irredimibile tristezza privata e pubblica». Gli fanno da contraltare, sull’«altro fronte», le decine di libri-testimonianza di brigatisti o di appartenenti ad altre «formazioni combattenti»: con qualche lodevole eccezione (Sergio Segio, Enrico Fenzi), quei libri vorrebbero farci credere che una realtà marginale di quel movimento, come la lotta armata, fosse non solo maggioritaria, ma l’unico sbocco possibile e quasi inevitabile di quella specie di rivolta. Purtroppo per Battista e per i «compagni che sparavano», la storia non è mai semplice, non è mai così manichea. Eppure, se la memoria di quegli anni è stata così travisata e impoverita, è colpa anche nostra: di chi c’era, voglio dire. Per un motivo o per l’altro, stretti tra i «compagni che sparavano» e i carrarmati della polizia che ti trovavi di fronte appena uscivi di casa, naufragati nel mare di ideologie o annichiliti dalla barbara morte di Moro, per molti anni ci siamo comportati come quei personaggi dei fumetti che si nascondono sotto uno stagno e respirano con una canna. In preda a una strana afasia, abbiamo evitato la responsabilità della tradizione, la necessità di trasmettere a quelli che vengono dopo un’esperienza perché poi la usino come meglio credono. Abbiamo, insomma, rifiutato di diventare adulti. Ma, come ha scritto Daniele Giglioli sul manifesto, «non si può restare giovani in eterno, se non a patto di rimuovere col passato anche il futuro: il futuro di tutti, anche quello di chi non c’era e si trova catapultato in un mondo in cui il primato del corpo e il rifiuto del lavoro, parole d’ordine del movimento degli anni Settanta, hanno trovato il loro adempimento parodico nella società del fitness e del lavoro precario». È un bene, dunque, che, decidendo finalmente di «diventare grandi», tanti di noi si siano messi a scrivere romanzi su quel periodo, e che i più l’abbiano fatto non nel tentativo di rinnegare la propria giovinezza o, al contrario, di difendere l’indifendibile, ma semplicemente per trasmettere un’esperienza senza cadere nella retorica della «meglio gioventù» o in quella dell’«era tutto sbagliato, è tutto da rifare». È un bene che nuovi libri, dischi, film ci riparlino di quegli anni. Perché nelle foto sfocate e in bianco e nero di quel periodo ci sono, a saperli leggere, i contorni dell’Italia di oggi. Un’Italia in cui è purtroppo scomparsa una parola-chiave di quel tempo, l’unica, forse, di cui avremmo dovuto trasmettere davvero il senso e la profondità: quella parola è «Noi». Soprattutto il Movimento del Settantasette, con le proprie teorizzazioni, con la propria creatività, con le proprie aggregazioni per piccoli gruppi, aveva tentato di conciliarla con l’Io, senza farla diventare «soggetto collettivo» di chissà quale palingenesi, provando a fare andare finalmente d’accordo le istanze libertarie e quelle comunitarie. Oggi, in una società che sa solo ripetere Io a più non posso, che ha perso qualunque dimensione collettiva, quel «Noi» farebbe un gran bene, perché, come dice la scrittrice spagnola Belén Gopegui, le gocce che cadono dal cielo sono gocce e, allo stesso tempo, pioggia. Perché, come scrive Roberto Esposito con una formula che non mi stanco mai di ripetere, «l’esistenza non può essere declinata che alla prima persona plurale: noi siamo».

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