I ragazzi dell’Inti­fada

Azuz, Ghassan e Moaed da ragazzini sono finiti in carcere per essersi opposti con le pietre all’esercito israeliano durante la reconquista della Cisgiordania. 13 anni dopo rievocano con orgoglio quei giorni

Palestina. Azuz, Ghassan e Moaed da ragazzini sono finiti in carcere per essersi opposti con le pietre all’esercito israeliano durante la reconquista della Cisgiordania. 13 anni dopo rievocano con orgoglio quei giorni in cui a vincere era il senso della comunità

Sono pas­sati 13 anni da quei mesi del 2002, i 40 giorni di asse­dio israe­liano di Betlemme, la recon­qui­sta della Cisgior­da­nia. La Hebron-Jerusalem Road col­le­gava ancora la città della Nati­vità a Geru­sa­lemme, non c’erano muri a cir­con­dare la tomba di Rachele (per i pale­sti­nesi la Moschea Bilal Ibn Rabah), solo posta­zioni mili­tari. Azuz aveva 12 anni, suo fra­tello Moaed 10, Ghas­san il più grande, 13.

Dopo gli anni caldi della Seconda Inti­fada, respi­rata ogni giorno dai vicoli del campo pro­fu­ghi di ‘Azze, hanno tra­scorso due anni a testa in pri­gione, erano tutti mino­renni. Usciti dalle car­ceri israe­liane, Azuz e Ghas­san hanno ripreso la scuola, si sono diplo­mati e oggi stu­diano all’università. Moaed no: dopo le sbarre israe­liane, subito si sono aperte le porte di un car­cere pale­sti­nese. Una volta fuori, ha abban­do­nato gli studi e oggi lavora in una caffetteria.

Tre­dici anni dopo, la Pale­stina è cam­biata. E di que­gli anni asse­dio e copri­fuoco resta il dolore ma anche l’orgoglio per la capa­cità di par­te­ci­pare e di resi­stere, per l’esperienza di soli­da­rietà vis­suta tra le strade strette del campo profughi.

Il mondo nei vicoli stretti
Ghas­san: «Dopo la Prima Inti­fada e gli Accordi di Oslo, il campo ha vis­suto per la prima volta una divi­sione poli­tica: chi era con la nuova Auto­rità Pale­sti­nese e chi con­tro. I primi foco­lai della Seconda Inti­fada hanno can­cel­lato le dif­fe­renze, anche noi bam­bini respi­ra­vamo la ritro­vata unità. Io ero un bam­bino come ogni altro nel campo, una fami­glia mode­sta ma attiva: mio padre ha pas­sato anni in pri­gione. Il campo era il cen­tro del mondo, tutto girava intorno ai vicoli stretti di ‘Azze. Era­vamo figli della strada: non esi­ste­vano spazi aperti, non ave­vamo soldi per andare a diver­tirci fuori. Gio­ca­vamo per strada, in un luogo sovraf­fol­lato, misero, pericoloso».

Azuz: «I nostri gio­chi erano lo spec­chio della fru­stra­zione e la vio­lenza in cui siamo cre­sciuti. Gio­ca­vamo a ‘eser­cito con­tro arabi’, ci pic­chia­vamo. Sal­ta­vamo sui camion­cini che por­ta­vano le ver­dure, le ruba­vamo e ce le lan­cia­vamo. Costrui­vamo fucili di legno e basi mili­tari. Chi cre­sce in un campo, è già con­sa­pe­vole: basta guar­dare le case e le strade per capire che qual­cosa di sba­gliato c’è. Non ci sono posti dove svi­lup­pare le tue capa­cità, ali­men­tare le tue pas­sioni. Solo la strada. Diventi adulto respi­rando poli­tica, per­ché tuo nonno ti ricorda che sei pro­fugo, tuo padre ti ricorda che sei pro­fugo, i tuoi vicini te lo ricor­dano, la casa dove vivi te lo ricorda».

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Posta­zione israe­liana durante l’assedio di Betlemme, 27 mag­gio 2002 (Foto Ap)

Moaed: «Già prima dell’Intifada, il ritmo della vita quo­ti­diana era det­tato dagli scon­tri e dai raid dell’esercito. A otto anni vedevo gente ferita, arre­stata davanti ai miei occhi, uccisa. Ogni giorno al ritorno da scuola, allun­ga­vamo il tra­gitto e pas­sa­vamo davanti alla posta­zione mili­tare israe­liana, solo per sfi­darli. I nostri geni­tori ave­vano paura, ma non ci nega­vano la strada».

Ghas­san: «Per mio padre era diverso. Dopo anni di atti­vi­smo e di pri­gio­nia, aveva perso fidu­cia nella causa, a cui aveva rega­lato i suoi anni migliori. Per che cosa? Per veder nascere l’Anp, veder tra­sfor­mata la lotta in un mezzo di arric­chi­mento per l’élite».

Moaed: «Poi è arri­vata l’Intifada. Gli scon­tri erano quo­ti­diani: appena arri­vava la noti­zia di un raid, noi bam­bini abban­do­na­vamo il pal­lone e pren­de­vamo le pie­tre. La notte entra­vano per arre­stare atti­vi­sti, si sen­ti­vano gli spari, non si dormiva».

Ghas­san: «L’Intifada è stato il nostro nuovo spa­zio d’espressione. Per la prima volta ci siamo sen­titi ‘spe­ciali’, noi bam­bini poveri del campo era­vamo diven­tati ad un tratto degli eroi. Rischia­vamo la vita ma non ci impor­tava granché».

Moaed: «Se man­cava cibo o acqua, ci si aiu­tava con i vicini. In qual­che modo era come se den­tro il campo ci sen­tis­simo al sicuro, un luogo pro­tetto per­ché lo cono­sce­vamo bene. Ma era anche il luogo dei raid, degli arre­sti, dei mar­tiri. Ogni volta che gli israe­liani lascia­vano un palazzo, dopo le incur­sioni, noi she­bab cor­re­vamo den­tro come uno sciame di mosche e pren­de­vamo quello che ave­vano lasciato, la frutta, il cibo, i bossoli».

Il cec­chino impla­ca­bile
Azuz: «Nono­stante la chiu­sura, den­tro il campo riu­sci­vamo a muo­verci di nasco­sto, tra i vicoli e sui tetti. Era però dif­fi­cile pas­sare dal lato est a quello ovest del campo per­ché c’era un cec­chino israe­liano sul tetto dell’hotel Para­dise, davanti l’ingresso del campo, che spa­rava a chiun­que pas­sasse per la strada che divi­deva le due aree. La mag­gior parte della gente viveva a ovest, ma il pani­fi­cio era a est. Allora quelli a est ci lan­cia­vano dalle fine­stre il pane. Il cec­chino spa­rava pure a quello».

Ghas­san: «Furono i giorni più caldi, i più col­let­tivi. Era­vamo come una grande fami­glia che si pren­deva cura di ogni suo mem­bro. Le divi­sioni degli anni pas­sati erano scom­parse. Le porte delle case erano sem­pre aperte, per poter acco­gliere chi scap­pava dall’esercito. Le fami­glie face­vano buchi nelle pareti per poter pas­sare da una parte all’altra del campo senza uscire. Le donne pre­pa­ra­vano cibo per il quar­tiere. A volte durante gli scon­tri la gente pre­ten­deva una vita nor­male, a sfre­gio dell’occupazione: si but­ta­vano i mate­rassi a terra, ci si sedeva lì a man­giare frutta secca. Poi, magari il giorno dopo vedevi un tuo vicino morire davanti ai tuoi occhi: l’occupazione non distrugge solo il tuo futuro, ma anche il tuo pas­sato, la tua memo­ria, quando uccide i tuoi cari, quando demo­li­sce la casa dove sei cre­sciuto come è suc­cesso a me».

I cor­rieri degli aiuti
Azuz: «Era stato creato un comi­tato che si occu­pava delle neces­sità pri­ma­rie. Squa­dre di ragazzi anda­vano in città com­prare cibo e siga­rette. Noi bam­bini aspet­ta­vano che tor­nas­sero per sapere cosa ave­vano visto, come era andata. Quando la Croce Rossa man­dava gli aiuti, li smi­sta­vamo e noi bam­bini face­vamo da cor­rieri, con­se­gna­vamo ad ogni fami­glia il suo pacco. Ci costrui­vamo i cion­doli con le pal­lot­tole israe­liane e fucili di legno per imi­tare i com­bat­tenti».
Moaed: «A 13 anni di distanza da quei giorni, la ten­sione poli­tica è sce­mata. Ma il bam­bino che ero io ieri e il bam­bino di oggi è lo stesso, l’occupazione ti ricorda sem­pre che sei figlio della Nakba. Nono­stante l’Autorità Pale­sti­nese: Ramal­lah oggi cerca di nascon­dere i campi, li cir­conda con ban­che e negozi per nor­ma­liz­zare la situa­zione dei profughi».

Ghas­san: «L’occupazione e i suoi soci cer­cano di cam­biare le sem­bianze del campo, di ren­derle “nor­mali” anche creando ten­sioni sociali e eco­no­mi­che. Ma que­sti ten­ta­tivi di divi­sione della società pale­sti­nese e di sra­di­ca­mento della memo­ria non hanno effetto sul cuore del campo».

Azuz: «Ma hanno effetti fuori. Fuori è diverso. Prima il livello di par­te­ci­pa­zione popo­lare e di con­sa­pe­vo­lezza era col­let­tivo, la società era unica. Ora si tende a sepa­rare le città dai suoi campi profughi».

Ghas­san: «Tranne i periodi di alta ten­sione in cui tutto il popolo è mobi­li­tato, le dif­fe­renze si sen­tono: quelle tra ric­chi e poveri, quelli tra chi è rifu­giato e chi no. Le esi­genze non sono le stesse: chi vive nel campo non paga affitto, acqua o elet­tri­cità, i suoi sforzi si con­cen­trano sull’attività poli­tica. Chi è fuori, ha più da per­dere, deve pen­sare alla fami­glia, al mutuo, è meno pro­penso a sacri­fi­carsi per una causa che oggi non ha alcuna stra­te­gia di lungo periodo».

Azuz: «L’obiettivo dell’Anp fin dalla sua crea­zione è stato chiaro: attra­verso il modello neo­li­be­ri­sta ci hanno reso dipen­denti dal sistema eco­no­mico, sepa­rando chi ha la carta di cre­dito da chi non ce l’ha. E la divi­sione da eco­no­mica si è fatta poli­tica. Il modello impo­sto dagli Usa ha reso il popolo dipen­dente dalla neces­sità di arri­vare alla fine del mese. Non è più la lotta per la causa, ma per la sopravvivenza».

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