Bisogna ripartire dalle lezioni africane di Gianni Celati

Grande soddisfazione e sfoggio di cifre record di incassi e presenze, al termine di un festival che perde in eco e peso internazionale, non si lancia come mercato, ha commesso gaffe imperdonabili per una manifestazione seria e, non fosse per la sezione «a parte» di Extra, ha rinunciato alla sua missione originaria, l’ incontro tra il pubblico e i più originali cineasti del pianeta (e speriamo che la boutade di trasferire baracca e burattini a Cinecittà , poi smentita da Alemanno, non avesse come vero movente quello di far fuori Mario Sesti, depennato dai ringraziamenti di Rondi nella conferenza stampa di chiusura). 

Grande soddisfazione e sfoggio di cifre record di incassi e presenze, al termine di un festival che perde in eco e peso internazionale, non si lancia come mercato, ha commesso gaffe imperdonabili per una manifestazione seria e, non fosse per la sezione «a parte» di Extra, ha rinunciato alla sua missione originaria, l’ incontro tra il pubblico e i più originali cineasti del pianeta (e speriamo che la boutade di trasferire baracca e burattini a Cinecittà , poi smentita da Alemanno, non avesse come vero movente quello di far fuori Mario Sesti, depennato dai ringraziamenti di Rondi nella conferenza stampa di chiusura).  Gli appuntamenti con John Landis e Alexander Rockwell, con i «divi e non solo», sono stati infatti i momenti magici del 5° Festival Internazionale del cinema. Peccato che il tentativo di coinvolgere nella manifestazione i club cinema romani di punta sia stato reciso dalla nuova direzione perché si è arrivati al paradossale caso del Detour che ha messo insieme un programma bellissimo dedicato ai tesori recenti del cinema giapponese proprio in parallelo con il «focus Giappone». Lo avessero coinvolto magari arrivavano anche Tsukamoto, Sion, Miike Takashi e Kawase…) attirando anche stampa straniera e conquistando un gradino di prestigio.
Il «reference system», sciagurata classifica a punti compilata in base a premi e partecipazione alle rassegne che permettono ai cineasti italiani già del gotha di accedere ai finanziamenti (non più «pubbici» ma governativi), sta avvelenando la gerarchia dei valori artistici e falsando anche la correttezza dei festival. Per questo sempre meno peso deve essere dato non solo ai premi e ai riconoscimenti, ma perfino alla partecipazione di pellicole italiane alle «mostra d’arte» o alla kermesse Oscar, falsate in partenza. La festa ha comunque scodellato, nei suoi interstizi quasi invisibili, alcune perle. Anche italiane. Altro paradosso. Più si cerca di sterminare il nostro cinema, e hanno fatto bene i 100 autori a manifestare, più arrivano segni imnprevisti di vitalità. Soprattutto da parte dei cineasti che o vivono all’estero o scappano all’estero per «risciacquare i panni» inzaccheratesi in patria. Un gioiello, visto che ci racconta la ricchezza dell’Africa e non fa il solito ipocrita piagnisteo sulle sue ataviche povertà, è per esempio Diol Kadd. Vita, diari e riprese in un villaggio del Senegal, documentario a tante mani, dirette da Gianni Celati, e frutto di un lungo e spregiudicato viaggio (tre anni) nella brousse, che sta mangiando foreste e risorse e non certo «fatalmente», condotto al fianco di una troupe leggera e appassionata e di un attore/regista locale, Mandiaye N’Diaye (studente di Celati a Bologna) che ha voluto allestire uno spettacolo teatrale in wolof, basato su una commedia di Arifstofane, coinvolgendo contadini, contadine, bimbi e massaie, musicisti di ogni tipo, giovani modernisti e griot. Un contadino stanco di soffrire scopre, da un saggio cieco, la strada per l’opulenza, ma… Un canovaccio sulla guerra ricchi/poveri che colpisce al cuore le tradizioni, che sono scontri secolari, non un monilite intoccabile. Celati, in voce off, alla Moravia, ma con un rispetto inusualmente non impressionista, raccorda insieme l’allestimento, la vita quotidiana, le informazioni socio-antropologiche, le allusioni feroci all’oggi e anche le reazioni della platea al film infine realizzato. È necessario intrecciare Sembene (o Joseph Gay Ramaka) a Rouch, per rimuovere l’occhio da entomologo eurocentrico e accostarsi, umilmente, a un patrimonio culturale secolare che rende più ricchi.

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