Se la rivoluzione non arriva più

Omaggi, sale affollate e discussioni notturne decretano il successo del festival austriaco. E nel film «M/F Remix» di Jy-ah Min, la regista originaria della Corea del sud (ma vive a San Diego), interroga la generazione dei nipotini di Marx e della Coca-cola

Omaggi, sale affollate e discussioni notturne decretano il successo del festival austriaco. E nel film «M/F Remix» di Jy-ah Min, la regista originaria della Corea del sud (ma vive a San Diego), interroga la generazione dei nipotini di Marx e della Coca-cola

VIENNA – Sale affollate, discussioni interessanti dopo i film, incontri tematici e ludici fino a notte tarda sulla nave attraccata al canale del Danubio: la Viennale ’10 è un altro successo di pubblico, grazie anche al suo programma che è un bel mix tra omaggi e tributi (tra cui, quello al cameraman francese scomparso da poco, William Lubtchansky) e la retrospettiva completa dedicata a Eric Rohmer all’Österreichisches Filmmuseum con numerosi ospiti, come le «sue» attrici, Marie Rivière e Béatrice Romand. 
Numerosi anche i film a firma femminile. M/F Remix di Jy-ah Min, regista/artista originaria della Corea del sud che vive a San Diego, è ambientato in questa città californiana e girato in bianco e nero. Riferimento narrativo e stilistico però è Godard, o meglio il suo Masculin-Féminin di cui si vedono diversi brani: da Jean-Pierre Léaud che si becca una sigaretta al volo a Chantal Goya che sa parlare d’amore, ma ignora le guerre nel mondo. Qui siamo nel 2004, due giovani studenti, un ragazzo e una ragazza convivono in un appartamento e, sin dall’inizio, si annuncia che si vuole raccontare «la storia dei giovani che in realtà non hanno storia». Si gioca con aeroplanini di carta, mentre alla radio deflagra il conflitto voluto da Bush. Didascalie con slogan politici e il loro détournement ironico alla maniera di Godard interrogano la vita quotidiana rispetto al destino di questi nipoti di Marx e della Coca cola, ossia cosa ne è oggi delle idee rivoluzionarie e politiche di ieri? 
Alla ricerca di piaceri tra giochi e/o rimandi a scene del film, si alternano immagini di alienazione nel lavoro e nella vita contemporanea, giocando con le parole d’ordine degli anni sessanta. Persino la tanto cantata rivoluzione non è arrivata, o, perlomeno, non nel modo in cui la si aspettava, così come i due cercano il significato di «amore» sul dizionario per riuscire ad accarezzarsi. Le guerre sono quelle in Iraq e in Afghanistan, visualizzate con soldatini e bandiera di plastica piazzati sul tavolo a suon di raffiche di spari e, a una sequenza di titoli di giornali, si sovrappone la riflessione della giovane disoccupata, disinteressata alle logiche geopolitiche perché deve trovare lavoro.
Sex, porno e nintendo s’intitola il capitolo che alterna dialoghi dal film di Godard (il sesso è sentire la pelle, fa parte del corpo, ecc.) con brevi annunci televisivi di giochi erotici intesi come fantasie della noia-landia. Ma in fondo, si dice verso la fine, il film si poteva anche chiamare «niente di nuovo sul fronte occidentale» benché per protestare contro Guantanamo bastano ormai dieci secondi davanti al computer e la vita si sta trasformando in una sit-com, dentro un fiume di immagini. 
Ma cosa accade se l’immagine si frantuma? Forse, allora, si scopre che non tutto è come lo si vede rappresentato? Contro ogni stereotipo dell’immigrazione di europei negli Stati Uniti, vincenti su ogni fronte, Kelly Reichardt nel suo Meek’s Cutoff (produzione di Todd Haynes, con cui collabora dal 1988) esplora le dinamiche interne di un gruppo di tre famiglie che nel 1845 attraversano l’Oregon e, a un livello più alto, quelle tra esseri umani alla scoperta speranzosa di nuove terre e nuove culture e il confrontarsi con i bisogni primari quali sete e fame. Lo scenario è quello di un western, i tipici carri trainati da buoi, la guida a cavallo (Meek), che però si perde, e la speranza/paura riversata sull’indiano che incontrano casualmente. Testimoni di gesti solitamente invisibili nella vasta prateria, tra fare il pane e riparare una ruota, sono le donne ad avere la meglio, figlie del caos creatore di vita, contro gli uomini, attori della distruzione – come si dice quando ormai sono persi tra infinite distese seccate dall’assenza d’acqua e montagne all’orizzonte, mentre l’indiano si avvia verso il nulla. 
Tra morte, spiritualità e ricerca di dio si muove Hitparkut, primo film in lingua yiddish e con un protagonista maschile, di Nina Menkes. Cineasta americana di nascita ma di origini ebree, nutre il suo immaginario onirico attraverso questo conflitto interiore, che prende forma per lo più in opere sperimentali. Girato in bianco e nero, il film narra le vicende di un uomo ebreo che dopo aver ucciso una donna (ebrea anch’essa), si perde nell’indifferenza. Menkes, che considera questo personaggio la metafora di Israele che continua a uccidere senza assumersi responsabilità e, in generale, il lato maschile ferito, mette in scena – con splendide immagini – le follie distruttive di un popolo condannato a morte che, a sua volta, ne condanna a morte un altro. Ispirato a Delitto e castigo di Dostojevski, girato a Yaffa/Tel Aviv, ha vinto al festival di Gerusalemme.

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