I democratici rischiano di perdere il seggio di South side, il quartiere malfamato di Chicago dove Obama lavorò come assistente sociale, quello che solo due anni fa si mobilitò per far eleggere il suo presidente. Ora i neri sono delusi e in tanti si astengono
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Il ghetto è stanco

I democratici rischiano di perdere il seggio di South side, il quartiere malfamato di Chicago dove Obama lavorò come assistente sociale, quello che solo due anni fa si mobilitò per far eleggere il suo presidente. Ora i neri sono delusi e in tanti si astengono

I democratici rischiano di perdere il seggio di South side, il quartiere malfamato di Chicago dove Obama lavorò come assistente sociale, quello che solo due anni fa si mobilitò per far eleggere il suo presidente. Ora i neri sono delusi e in tanti si astengono
Le elezioni passano, le chiese restano. Due anni fa, per le presidenziali, ero alla chiesa evangelica del Cristo Unito, una casetta unifamiliare dai muri screpolati: solo la bandierina a stelle e strisce piantata in un vaso senza fiori ti diceva che questo era uno dei seggi elettorali nevralgici del sud della città. Quest’anno sono a qualche strada di distanza, davanti a un’altra casetta, la South Shore Bible Baptist Church. Anche ora, solo una bandierina ti dice che sei davanti a un seggio elettorale. Da noi sono le scuole a ospitare le urne, qui, nel South Side, sono le chiese. Ma il concetto di chiesa è molto diverso che da noi: niente navate, absidi, organi, bensì un tinello, un tavolo, uno scaffale, spesso un fornello e un lavello, una sala più grande per le funzioni. In Italia non vediamo quanto pesano le chiese nella vita dei neri americani.
Il Chicago South Side è uno dei ghetti neri più segregati di tutti gli Usa (il tasso di segregazione è del 95%), area malfamata assurta a simbolo dell’abominio urbano statunitense, come l’East St. Louis, il North Philadelphia o Stuyvesant a New York. È una delle zone che due anni fa, con la massiccia affluenza dei neri, decretarono il trionfo di Barack Obama, nella città di Obama, nel quartiere dove Obama ha fatto l’assistente sociale (community organizer). Ma quest’anno la musica è molto diversa: quando Obama è diventato presidente, ha dovuto abbandonare il seggio di senatore. E oggi è proprio questo seggio che i democratici rischiano di perdere, e una vittoria del repubblicano Mark Kirk sul democratico Alexi Giannulias avrebbe un valore simbolico enorme. 
È martedì mattina e arrivo nel South Side in metro, sulla linea rossa. Appena superata l’ultima fermata del centro, la Roosevelt, i passeggeri cominciano a scurirsi, finché, quando scendo alla 69-esima sud, sono l’unico bianco del vagone. Sempre più i ragazzi indossano i cappucci delle loro tute sopra il berretto da baseball, anche in quest’assolato giorno da estate di San Martino.
Noi abbiamo della miseria urbana un’immagine diversa da quella statunitense. Pensiamo ad affollate bidonvilles, a una folla cenciosa tipo Calcutta. Invece qui hai strade deserte lungo cui scorrono negozi chiusi dalle vetrine sfasciate, distributori di benzina in rovina, casette dismesse dalle persiane bruciacchiate, praticelli incolti, fili spinati, negozi di pegni, spacci di alcolici difesi da inferriate stile Fort Knox. Non è la folla a incuterti ansia, quanto la solitudine, il deserto, pochi giovani a bighellonare in qualche incrocio. Altri che fanno di tutto per intimorirti quando t’incrociano: «Dove credi di andare, man?» Qui i soli bianchi che vedi sono quelli che gli altri bianchi, con molto tatto, chiamano white trash, «spazzatura bianca». Evidentemente i ragazzi neri mi prendono per un white trash.
A dire il vero, neanche due anni fa c’erano state code ai seggi del South Side. Anche allora la gente arrivava alla spicciolata, un paio al minuto. Questa volta sono ancora meno. Tra questi rari elettori vedi molti più malconci, claudicanti, obesi, invalidi, che negli altri quartieri: un’infelicità spicciola, un’infermità sommessa, una male di vivere liso. Naturalmente, come altrove negli Usa, non è possibile davvero dire quale sia l’affluenza, visto il fenomeno dell’early voting, cioè del voto anticipato. Puoi non vedere gente perché l’affluenza è bassa, ma anche perché invece ha già votato.
È incredibile come nella politica moderna chi non vota pesi paradossalmente più di chi vota: decide chi governa, anche se poi non governa. E infatti qui negli Usa la partita si decide a chi ha meno astenuti. Per i repubblicani la grande domanda è: quanti indipendenti e moderati resteranno a casa disgustati dall’estremismo del Tea party? Saranno di più o di meno dei giovani progressisti disamorati dalla timidezza delle riforme obamiane? E come non voteranno le minoranze? Perché il partito dell’astensione non è una marmellata informe, è un insieme strutturato. Ed è la ragione per cui dalla rivoluzione reaganiana in poi, i repubblicani hanno governato per 20 anni contro i 10 dei democratici: perché negli Usa i giovani votano molto meno dei vecchi, e i neri (e i latinos) assai meno dei bianchi: alla fine il gruppo sociale che vota di più è quello dei bianchi anziani (che costituiscono il nerbo del Tea Party) e il gruppo sociale che vota di meno è quello dei giovani di colore. 
Nel 2008, con una mobilitazione straordinaria, Obama era riuscito a smuovere l’apatia elettorale dei neri, giovani e anziani. Quest’anno, per difendere il loro presidente sotto attacco, i neri continueranno ad andare alle urne, ma meno di due anni fa. Tra i giovani bianchi l’affluenza è in crollo verticale. E i democratici hanno un problema anche con le donne che due anni fa erano state decisive per la vittoria democratica ma quest’anno sono più divise.
Ironia della sorte: il 20% degli statunitensi è convinto che Obama sia musulmano (forse perché il suo secondo nome è Hussein) e qui, nel cuore del South Side, siamo a pochi isolati dalla Grande Moschea della Nation of Islam, la San Pietro dei Musulmani neri, di quei neri che – come Malcolm X – si convertirono per davvero all’islamismo per sfuggire alla tirannia della religione dei loro oppressori bianchi.

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