La strategia di un massacro

Genocidio armeno. La ricorrenza della tragedia del 1915 va oltre la riflessione storica rivelando la natura politica di quell’insieme di eventi e la «modernità» dell’omicidio di Stato

La ricor­renza del geno­ci­dio del popolo armeno pone a tutt’oggi una serie di inter­ro­ga­tivi la cui natura sopra­vanza la rifles­sione sto­rica e l’esercizio sto­rio­gra­fico per rin­viare, sem­mai, alla natura poli­tica di quel tra­gico insieme di eventi. Quindi, per più aspetti, alla sua attua­lità e moder­nità. Que­stione tanto più aperta se si pensa che un paese come la Tur­chia con­tem­po­ra­nea, la cui fon­da­zione è anche legata a quel mas­sa­cro indi­scri­mi­nato, man­tiene, per sta­tuto poli­tico e insieme di dispo­si­zioni legi­sla­tive, il divieto di rico­no­scere la con­cre­tezza di tali fatti, pra­ti­cando un vero e pro­prio nega­zio­ni­smo di Stato. Per acce­zione comune con il «grande male», Metz Yeghérn, così come è stato defi­nito dalle stesse vit­time, si inten­dono due vicende cro­no­lo­gi­ca­mente distinte ma col­le­gate tra di loro da un’intrinseca con­ti­nuità e consequenzialità.
La prima di esse rin­via alla cam­pa­gna con­tro la mino­ranza armena da parte del decli­nante Impero otto­mano, con­dotta dall’allora sul­tano Abdu­lha­mid II nel trien­nio com­preso tra il 1894 e il 1896. Alla fine del XIX secolo gli armeni costi­tui­vano infatti uno dei gruppi più coesi all’interno della comu­nità impe­riale. Lo sfal­da­mento delle strut­ture poli­ti­che e l’accelerata per­dita di ter­ri­tori ai quali quest’ultima stava assi­stendo, si accom­pa­gna­vano all’inadeguatezza, se non all’inettitudine poli­tica, delle élite otto­mane, ai cal­coli pre­da­tori degli Stati euro­pei, al con­trap­porsi degli impe­ria­li­smi con­ti­nen­tali nei con­fronti dei deca­denti assetti medi­ter­ra­nei e all’emergere di una poli­tica delle nazio­na­lità che avrebbe poi costi­tuito un fat­tore deter­mi­nante nell’esplosione della Grande guerra. Intorno al 1890 la comu­nità armena otto­mana con­tava circa un paio di milioni di ele­menti, pre­va­len­te­mente stan­ziati nella Cili­cia e in sei distretti ammi­ni­stra­tivi dell’Anatolia orien­tale.
La stra­te­gi­cità del suo ruolo deriva anche dalle mire espan­sio­ni­ste della Rus­sia zari­sta, che basava i suoi cal­coli ege­mo­nici sull’utilizzo poli­tico delle riven­di­ca­zione auto­no­mi­ste e indi­pen­den­ti­ste, con­fi­dando di potere sfian­care in tale modo Costan­ti­no­poli. Il Medi­ter­ra­neo era infatti una posta pre­miante. La diri­genza otto­mana andava rispon­dendo per parte sua attra­verso l’esacerbazione della con­trap­po­si­zione con la mino­ranza curda, in com­pe­ti­zione con gli armeni per il con­trollo poli­tico dei mede­simi ter­ri­tori, ed in par­ti­co­lare delle cam­pa­gne orien­tali dell’Anatolia. A metà di quel decen­nio il cumu­larsi di ten­sioni sfo­ciò quindi in una vio­len­tis­sima repres­sione che l’esercito otto­mano, coa­diu­vato da mili­zie para­mi­li­tari curde, pra­ticò siste­ma­ti­ca­mente ai danni della popo­la­zione civile armena, accu­sata di «infe­deltà» verso il cen­tro poli­tico impe­riale. Al qua­dro dei grandi appe­titi geo­po­li­tici si ricon­net­te­vano infatti le mol­te­plici spinte all’indipendenza ter­ri­to­riale, spesso con­fuse se non vel­lei­ta­rie, ma acco­mu­nate dal con­di­vi­dere due matrici: i per­corsi indi­pen­den­ti­sti in atto nei Bal­cani, in quanto modello di indi­rizzo sepa­ra­zio­ni­sta, e l’eco ideo­lo­gico del dibat­tito in corso nella Rus­sia zari­sta, dove le domande di eman­ci­pa­zione sociale si incon­tra­vano con le istanze nazio­na­li­ste. L’incapacità dell’amministrazione otto­mana dinanzi alle fri­zioni pro­cu­rate dal rap­porto con una moder­nità che già allora riman­dava ad un’accentuata glo­ba­liz­za­zione eco­no­mica, alla radice di una cre­scente divi­sione dei ruoli nei mer­cati inter­na­zio­nali, fu quindi alla base dell’affermarsi del movi­mento dei cosid­detti «Gio­vani turchi».

Un’élite moder­niz­zante, inti­ma­mente con­sa­pe­vole della svolta che andava, passo dopo passo, impo­nen­dosi nei fatti, ispi­rata a sua volta ad un nazio­na­li­smo aggres­sivo, che postu­lava il supe­ra­mento della forma impe­riale e la sua sosti­tu­zione con uno Stato nazio­nale, ten­den­zial­mente omo­ge­neo sul piano etnico, fu la vera arte­fice del geno­ci­dio che si con­sumò tra il 1915 e il 1916.
Se nella prima fase, quella tardo otto­cen­te­sca delle vio­lenze, era ancora dif­fi­cile vedere nella repres­sione della comu­nità armena un piano pre­or­di­nato che non coin­ci­desse con il mero obiet­tivo di con­te­nere lo sfal­da­mento dell’Impero, nella seconda fase, invece, l’intenzionalità e la pro­get­tua­lità, quindi l’autonomia e la deter­mi­na­zione poli­tica di un per­corso geno­ci­da­rio, diven­ta­rono invece evi­denti. Si trat­tava, infatti, di rimo­del­lare la società otto­mana, tran­si­tante verso il futuro Stato turco, sulla base di una omo­ge­neiz­za­zione sociale, cul­tu­rale e demo­gra­fica. Un’opera di livel­la­mento, che doveva espun­gere quelle com­po­nenti dichia­rate incom­pa­ti­bili con l’organizzazione poli­tica a venire. La cor­nice della tra­ge­dia fu quindi for­nita dalla guerra mon­diale in corso. Peral­tro, pogrom e mas­sa­cri si erano avvi­cen­dati negli anni pre­ce­denti, col­pendo anche altre mino­ranze sto­ri­che. Ma quando, con la pri­ma­vera del 1915, l’esercito russo, che minac­ciava i con­fini turco-ottomani, avviò il reclu­ta­mento di gio­vani armeni, nel men­tre la Fran­cia si ado­pe­rava per sof­fiare sul fuoco delle spinte indi­pen­den­ti­ste, la rea­zione delle classi diri­genti neo­re­pub­bli­cane si espli­citò immediatamente.

Se nella seconda metà di aprile di quell’anno si pro­ce­dette all’arresto, alla depor­ta­zione e all’assassinio degli espo­nenti urbani dell’intellettualità e delle élite sociali armene, a stretto giro seguì una gigan­te­sca e com­plessa ope­ra­zione di tra­sfe­ri­mento coatto delle comu­nità locali, che ne colpì l’antico radi­ca­mento nell’intera Ana­to­lia. Regione con­si­de­rata dai Gio­vani tur­chi come il cuore pul­sante della nuova patria e, in quanto tale, da ripu­lire fino alle sue radici da pre­senze a que­sto punto denun­ciate come estra­nee se non minac­ciose, così da met­tere in discus­sione la con­ti­nuità dello Stato mede­simo. Le auto­rità tur­che coniu­ga­rono tra di loro quindi quat­tro pro­ce­dure ope­ra­tive: la distru­zione deli­be­rata dei gruppi diri­genti armeni, spesso riven­di­cata pub­bli­ca­mente come un atto tanto neces­sa­rio quanto libe­ra­to­rio nei con­fronti della società turca, di con­tro al «tra­di­mento» della mino­ranza; la crea­zione e la dif­fu­sione di un panico selet­tivo, che doveva inti­mi­dire e ini­bire le vit­time, ras­si­cu­rando la parte restante della popo­la­zione sull’accettabilità poli­tica e morale dell’azione in corso; la disin­te­gra­zione della rete di legami soli­dali tra i gruppi comu­ni­tari; l’avvio e la rea­liz­za­zione di una gigan­te­sca ope­ra­zione di puli­zia etnica, attra­verso la bru­tale depor­ta­zione dei civili verso aree deser­ti­che, ino­spi­tali, lad­dove que­sti mori­vano poi per ine­dia, stenti, o per deli­be­rato assas­si­nio da parte dei mili­tari. Il sistema logi­stico di distru­zione, messo in moto dalle auto­rità, inter­val­lava soprusi in loco a marce della morte, all’interno di un qua­dro di vio­lenza siste­ma­tica, dove l’intensità varia­bile della mede­sima era deter­mi­nata più dalle sin­gole cir­co­stanze del momento che non da inten­zioni di fondo dif­fe­renti. La regia, in altre parole, era centralizzata.

Peral­tro, data al 27 mag­gio del 1915 la pro­mul­ga­zione di una «legge tem­po­ra­nea di depor­ta­zione» che, sotto il pre­te­sto dell’emergenza det­tata dallo stato di guerra, auto­riz­zava e legit­ti­mava lo spo­sta­mento coatto delle popo­la­zioni. Se il dispo­si­tivo nor­ma­tivo rispon­deva anche alla neces­sità di offrire una sorta di giu­sti­fi­ca­zione poli­tica delle vio­lenze in atto, soprat­tutto dinanzi ai giu­dizi cri­tici e pole­mici delle potenze dell’Intesa, che ave­vano ini­ziato ad avan­zare obie­zioni con­tro le scelte di Costan­ti­no­poli, dall’altro san­civa, senza equi­voci di sorta, l’unitarietà dell’azione repres­siva e quindi distruttiva.

L’ottica era quella della cor­re­spon­sa­bi­liz­za­zione degli appa­rati pub­blici. Buro­cra­zia, ammi­ni­stra­zioni civili, eser­cito, organi di infor­ma­zione e quant’altri veni­vano alli­neati su posi­zioni e con­dotte che assu­me­vano, nel loro com­plesso, la natura di mani­fe­sta­zione di una pre­cisa volontà di Stato, spre­giu­di­ca­ta­mente riven­di­cata. In altre parole, si trat­tava di un mas­sa­cro «legale», ovvero del deter­mi­narsi di un geno­ci­dio non solo attra­verso la somma di atti di vio­lenza, nel qua­dro dei rivol­gi­menti bel­lici, bensì all’interno di un per­corso poli­tico, morale, cul­tu­rale ma anche emo­tivo che ne san­zio­nava i ter­mini della sua legit­ti­mità. Fatto, quest’ultimo, che fu ulte­rior­mente raf­for­zato dall’introduzione, poche set­ti­mane dopo, di un’altra legge, que­sta volta per l’«espropriazione e la con­qui­sta» dei beni dei depor­tati, desti­nati alla ven­dita all’incanto o alla loro ces­sione ai pro­fu­ghi musul­mani pro­ve­nienti dai ter­ri­tori con­qui­stati dai russi. Le marce della morte diven­nero così il com­pi­mento di un per­corso di espul­sione legale di una mino­ranza dal con­sesso della società, attra­verso la revoca dell’integrazione poli­tica, la rapina e la distru­zione dei suoi beni e il ricorso allo ster­mi­nio selet­tivo per sfi­ni­mento.
L’insieme di que­sti obiet­tivi fu per­se­guito adot­tando un calen­da­rio acce­le­rato che, tra aprile del 1915 e il set­tem­bre del 1916, com­portò lo sra­di­ca­mento della comu­nità armena dalle sue terre d’insediamento ricor­rendo alla depor­ta­zione col­let­tiva, in lun­ghe colonne, dei civili, com­ple­ta­mente indi­fesi e sot­to­po­sti agli effetti delle peg­giori con­di­zioni cli­ma­ti­che, pri­vati di ogni diritto e di qual­siasi bene, sot­to­po­sti alle con­ti­nue ves­sa­zioni dei mili­tari e dei gruppi armati curdi. Se gli ordini for­mal­mente non richia­ma­vano l’obbligatorietà dell’assassinio in massa delle vit­time, le con­di­zioni di fatto in cui le ope­ra­zioni ven­nero zelan­te­mente ese­guite si tra­dus­sero da subito in tale esito. Con il sostan­ziale plauso delle autorità.

Non è allora un caso se le dina­mi­che di que­sta vicenda riman­dino sini­stra­mente non tanto a let­ture basate sull’arbitrio così come sull’eccesso di bar­ba­rie, bensì alla moder­nità, ragio­nata e razio­nale, dell’omicidio di Stato. Poi­ché è anche nell’eliminazione fisica di una mino­ranza che si rige­ne­rano la cit­ta­di­nanza e l’appartenenza ad una nuova comu­nità poli­tica, lad­dove l’inclusione della mag­gio­ranza viene san­cita dalla disin­te­gra­zione di un gruppo tar­get. Il quale viene eli­mi­nato per la sua spe­ci­fica natura di sog­getto privo di pro­te­zioni e, come tale, desti­nato ad essere siste­ma­ti­ca­mente annien­tato, senza che da ciò deri­vino tur­ba­menti o ansie che non siano quelle di una memo­ria col­let­tiva per più aspetti inter­mit­tente, tanto dolente quanto distante con­cre­ta­mente dai fatti.

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