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Dario Fo, dialogo per organi

 “…Fanno uso di me come manco fossi ‘na pantofola, ‘na sciavatta! Avà nte me se fanno moine e serenate, il sangue scorre come impazzito e po’ quando me se son goduti ce se deméntica della infiòrita mia…”. “Ciollo”, “spacchiusu”, “parpaja”. Da Nord a Sud, dalla Lombardia alla Sicilia, dall’Atlantico all’India le espressioni triviali e il linguaggio sconcio sono strumenti di sberleffo di ogni potere costituito. Con il suo nuovo libro il premio Nobel torna al suo primo comandamento: il giullare è il vero volto di Dio e Dio si presta al gioco

 “…Fanno uso di me come manco fossi ‘na pantofola, ‘na sciavatta! Avà nte me se fanno moine e serenate, il sangue scorre come impazzito e po’ quando me se son goduti ce se deméntica della infiòrita mia…”. “Ciollo”, “spacchiusu”, “parpaja”. Da Nord a Sud, dalla Lombardia alla Sicilia, dall’Atlantico all’India le espressioni triviali e il linguaggio sconcio sono strumenti di sberleffo di ogni potere costituito. Con il suo nuovo libro il premio Nobel torna al suo primo comandamento: il giullare è il vero volto di Dio e Dio si presta al gioco

er gli abitanti della Trinacria Cerere, Dea Madre presso i romani, chiamata Demetra dalle popolazioni di origine greca, aveva un grande valore mitico. A questo proposito ricordo di aver ammirato nello straordinario museo di Gela una scultura di grande potenza raffigurante la dea seduta in trono nel gesto di offrire ai fedeli un melograno: è risaputo che quel frutto raffigurava, e lo raffigura ancora, l´utero della donna e quindi anche della Grande Madre. Nello stesso museo è esposta una tavola medioevale dove è rappresentata la Madonna, nell´atto di offrire a sua volta il melograno da cui era nato il proprio figliolo.
Questa è di certo la ragione per cui in Sicilia è impossibile trovare qualcuno che si permetta di fare commenti osceni sul sesso femminile. È un fenomeno parallelo a quello di cui abbiamo trattato riguardo all´atteggiamento rispettoso verso la parpàja, e gli altri termini collegati, in quasi tutto il Nord Italia. Anche in Sicilia troviamo poi un lemma che indica la fortuna e la bellezza analogo a figo: spacchiùsu, col quale si allude a un uomo o a una femmina attraente e affascinante. La radice è quella di pàcchio: pacchiùzza, cioè appunto il sesso femminile chiamato anche stìcchiu, di genere stranamente maschile. Il termine stìcchiu trova la sua etimologia nel latino osticulum ovvero piccola bocca (da os) con evidente riferimento alla forma dei genitali femminili.
Un altro valore etimologico importante lo rinveniamo nella lingua portoghese, dove per tradurre «fortuna» si usa il termine figa con tutti i derivati enfigao, enfigu, figant eccetera.
A sostegno del rispetto di cui gode, nella tradizione dell´isola a tre punte, l´organo femminile, ci permettiamo di scomodare uno dei più grandi interpreti della tradizione popolare siciliana. Si tratta di Giuseppe Pitrè, che nella sua raccolta di conte popolari accenna a un dibattito davvero surreale di cui sono protagonisti gli organi che compongono il corpo umano, in particolare quello femminile. Giudice di questa specie di processo è addirittura il Padreterno.
I convenuti, cuore, cervello eccetera, si rivolgono al Creatore denunciando disperati la protesta di uno di loro.
«Si rischia la paralisi! Se tu, Santissimo Signore, non intervieni immediatamente, qui si schiatta…»
«Di che si tratta? Chi protesta?» chiede l´Altissimo.
«Lo sticchio!»
E tutti gli organi si fanno in là per mostrare al centro della scena «u´ pàcchio femmenóso» che ritto su uno sgabello urla: «Chiamo te, o Segnore. Tu hai fatto ‘nu capolavoro: ogni organo è essenziale alla vita delle creature, masculi e fèmmene. Io che sto sita in la fèmmena, ho deciso di non compiere più né un gesto né un respiro, tutta bloccata mi costringo a stare».
«E perché? Per protestare contro chi?» chiede il Creatore.
«Contro tutti l´altri organi».
«E per quale raggióne?»
«Per lo fatto che me se manca de réspecto! Fanno uso di me come manco fossi ‘na pantofola, peggio, ‘na sciavàtta! Avànte me se fanno moine e serenate, il cuore sbatte, il cervello va in stràmbola, il sangue scorre come impazzùto, non vi dico che succede allu màsculo col só spetàcchio rizzo… frémiti e po´ quando me se son goduti ce se deméntica della infiorìta mia come fussi l´ultimo dell´organi… e dire che so´ quella che dà la vita e per fa´ ‘sto miracolo tutta me struzzo e spalanco urlando de dolore, attraverso l´ammore che do, se ‘ngravida lu ventre e nàscheno le creature».
Il Padreterno si alza e dice: «Issa infiorìta ha raggióne, tutte le raggióni! E, cari organi, ve voglio dire che anch´io so´ imbestialito come a chidda, ve ce ho creati tutti iguàli senza darve ‘nu numero de emportànza assoluta; ognuno è pe´ me assoluto, se a stu corpo che tenete ce manca l´uòcchi va a sbatte contro ogni albero o parete. Senza l´orecchi, sordi come pétre divenite… E desgraziàti séte, senza la bocca e co´ lu core spento mala vita tenete! E così pe´ tutti l´altri mancamenti, ma se ve´ canzèlla lu stìcchiu fiorito, filli mei, séte perduti! Che illa è la fenèstra de llu sentimento. Nullo se mòve se issa no´ respira… lu pallore allo viso e lu russore non véne, lo còre no´ sbatte… lu fiato no´ se fa fitto… lu ventre no´ freme… lu occhi no´ sbatteno, no´ chiàgneno e no´ rideno co´ la bocca assieme! Morte v´attende zacché col vostro ‘spezzamento serrate a vite lo pertùso da che sorte ogne dolzore».
(Tratto da L´osceno è sacro di . Testo e traduzioni
a cura di Franca Rame © 2010 Ugo Guanda Editore)

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