Tra il futuro e il passato

Oggi il ballottaggio fra Dilma Roussef, la candidata di Lula, e José Serra, uomo di sinistra candidato delle destre. I sondaggi dicono 56 a 44%. Ma il 3 ottobre si sbagliarono. La verde Marina Silva, col suo 20%, è la convitata di pietra. Una partita decisiva non solo per il Brasile

Oggi il ballottaggio fra Dilma Roussef, la candidata di Lula, e José Serra, uomo di sinistra candidato delle destre. I sondaggi dicono 56 a 44%. Ma il 3 ottobre si sbagliarono. La verde Marina Silva, col suo 20%, è la convitata di pietra. Una partita decisiva non solo per il Brasile

Ci siamo. Oggi si vota in Brasile nel ballottaggio presidenziale fra Dilma Rousseff, la candidata di Lula (e del Pt, il Partido dos trabalhadores), e José Serra il «socialdemocratico» che, contro la sua biografia, si ritrova a rappresentare le varie destre del grande paese, sempre forti e minacciose. La destra-destra di sempre, (quella di «Tradizione famiglia proprietà»; la destra dei «generali in pigiama» che festeggiano ogni anno il golpe militare del marzo ’64 (contro cui si batterono, dall’esilio, sia Serra sia, dal carcere e dalla tortura, Rousseff); quella dei grandi media scritti e televisivi (la Rete Globo, la Folha e o Estado di San Paolo, o Jormal do Brasil, la rivista Veja…); il big business finanziario e industriale che, nonostante i profitti colossali (mai così alti) garantiti negli otto anni di Lula sente il richiamo della foresta; la gerachia cattolica (non il clero rank and file che sta con Lula-Dilma), l’Opus Dei e le debordanti sette evangeliche (che costituiscono ormai il 20-25% dell’elettorato e sono ricchissime di soldi e tv) e hanno impedito a Dilma la vittoria al primo turno del 3 ottobre, per via delle sue presunte aperture sulla de-penalizzazione dell’aborto (una legge del 1940 lo consente in Brasile solo nel caso di stupro e pericolo per la vita della madre) e, addirittura – come fossimo negli Usa del «tea party» – della sua incerta fede in dio. Poi la destra «moderna» e «perbene» come l’Economist, il Financial Times e, più trasversalmente, lo spagnolo El Pais, che dopo aver elogiato Lula per le sue performances economiche e sociali, alla fine, quando la distanza fra Dilma e Serra è sembrata ridursi, si sono fatti ingolosire dalla chance di un ritorno alla casa madre del Brasile: entrambi i candidati «socialdemocratici», entrambi «tecnocrati sprovvisti di charme» entrambi sostenitori delle «politiche market-friendly» con forte «compoenente sociale», ma in fin dei conti meglio Serra perché sarebbe più per la «linea dura» sul piano fiscale, più «agile a tagliare le spese eccessive» (ovvio riferimento alle spese per i programmi sociali) e «eliminare il deficit fiscale» (la bilancia di conto corrente è passata dai 24.3 miliardi di dollari nel 2009 ai 49.5 del 2010), o perché con Serra si eviterebbe il rischio «di una presidenza parallela, come quella di Putin in Russia» e ci sarebbe «meno indulgenza» con tipi poco raccomandabili come il venezuelano Chavez e l’iraniano Ahmadinejad.
Come in molti, a sinistra, hanno detto in Brasile, Dilma, scelta a dito da Lula come suo successore, «non è la candidata dei nostri sogni» ma «Serra è il candidato dei nostri incubi». Perché Serra, un uomo nato a sinistra (sinistra moderata, ma sinistra), si è poi sempre ritorvato a inalberare le bandiere della destra. Ha scritto l’Mst, il Movimento dei Senza Terra di Joao Pedro Stedile, nel suo appello al voto (critico: la riforma agraria non è stata fatta, e non lo sarà) per Dilma oggi, che «la biografia di José Serra è quella che esce più sconfitta in queste elezioni».
Serra ha sfruttato il clamoroso 20% avuto dall’ambientalista amazzoniza Marina Silva al primo turno del 3 ottobre. Frutto del disincanto di molti rispetto alla politica ambientale di Lula e di Dilma (deviazione di fiumi, deforestazione, centrali idro-elettriche, nucleare, limitazione delle terre indigene, agro-businnes…), della delusione dei ceti medi urbani (dove Marina ha fatto il pieno) e dei giovani.
Per certi versi Marina Silva sarebbe stata la candidata perfetta (o quasi), lei è «il Lula dell’Amazzonia», non la fredda tecnocrate Dilma (di se stessa diceva: «una donna dura in mezzo a ministri fragili»), esasperatamente «sviluppista» (come Lula, del resto, che viene da una storia di sindacalista metalmeccanico). Marina, però – che ormai si dipinge come «né di sinistra né di destra ma avanti» – è «politicamente progressista» (perché i temi sull’ambiente che propone sono inquestionabili) ma «socialmente conservatrice», su temi altrettanto decisivi come l’aborto (1.5 milioni di aborti clandestini e 300 donne morte ogni anno). Sul ballottaggio non ha preso posizione, si è detta «indipendente» e «non netruale». Ambigua.
Serra ha incalzato Dilma, accompagnato e «pompato» dai media, sull’aborto. Ha cercato di accaparrarsi il voto su Marina del primo turno e l’appoggio delle sette evangeliche e della gerarchia ecclesiastica (addirittura ci si è messo, immancabile, anche l’inquisitore Bento, come in Brasile si chiama Benedetto XVI). Poi, sempre accompagnato dai media, ha preferito cancellare il problema una volta venuto fuori che (forse) sua moglie Maria una volta, in gioventù, fu costretta anche lei ad abortire. Nei dibattiti a due in tv si è dovuto parlare anche dei programmi. Che Serra non ha. Al punto di arrivare a presentarsi in un video come il miglior successore di Lula, con tanto di foto al suo fianco.
I sondaggi danno Dilma al 56 e Serra al 44%. Ma già al primo turno (47% per Dilma, 32% per Serra) si sbagliarono. clamorosamente. Se si sbagliassero anche questa volta sarebbe un disastro per il Brasile e per l’America latina perché l’effetto domino sarebbe quasi inevitabile e nefasto.

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