Installazione di Antony Gormley

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Marx, Foucault e la grammatica del comune

Installazione di Antony Gormley

Installazione di Antony Gormley

Per­cor­rendo il secolo che divide Marx da Fou­cault e ana­liz­zando la diver­sità delle forme di sfrut­ta­mento, di lotte e di modi di vita, vanno fis­sati alcuni punti che evi­den­ziano le differenze.

Prima dif­fe­renza. In Marx, l’unità del comando si man­tiene nella figura del potere sovrano. Il governo è uni­fi­cato nella volontà del capi­tale. In Fou­cault, l’unità del potere è invece sciolta e nella «gover­na­men­ta­lità» si arti­co­lano in forma plu­rale pro­du­zioni di potere diverse e dif­fuse.
Seconda dif­fe­renza. In Marx, nel capi­tale si rias­sume il domi­nio, le dina­mi­che sto­ri­che dello svi­luppo sociale si sus­se­guono sul ritmo delle dif­fe­renti «sus­sun­zioni», in una uni­voca pro­spet­tiva di «capi­ta­liz­za­zione» – quando non si voglia dire di «sta­ta­liz­za­zione» – del sociale. In Fou­cault, il bio­po­tere si decen­tra, la sua dif­fu­sione avviene per ger­mi­na­zioni diverse, le arti­co­la­zioni del potere si sin­go­la­riz­zano. Siamo a fronte di una «socia­liz­za­zione del poli­tico».
Terza dif­fe­renza. In Marx, il comu­ni­smo si orga­nizza attra­verso la dit­ta­tura del pro­le­ta­riato, che sola può costruire la tran­si­zione dalla società capi­ta­li­sta ad una società senza classi. In Fou­cault, il regime poli­tico della libe­ra­zione si orga­nizza nella sog­get­ti­va­zione, si sin­go­la­rizza come libertà, pone nella pro­du­zione in maniera illi­mi­tata la costru­zione di feli­cità comune.

Pos­sono essere cor­rette o riav­vi­ci­nate que­ste indub­bie dif­fe­renze? Le divi­sioni con­cet­tuali che, pur sulla base di una mede­sima linea onto­lo­gica, son date pos­sono esser tolte? Pos­sono, pro­ba­bil­mente, esser rese meno impor­tati di quanto sem­brino. Per esem­pio, alla prima dif­fe­renza – la con­ce­zione orga­nica dello Stato e del comando in Marx — è for­te­mente atte­nuata, sul livello poli­tico, dall’analisi sto­rica dei com­por­ta­menti delle classi sociali, dal dispo­si­tivo inter­pre­ta­tivo della «guerra di classe» e dei suoi effetti tran­si­tori e mul­ti­pli; e poi dalle ipo­tesi (e dalle cri­ti­che) «comu­narde» svi­lup­pate nei suoi diversi scritti sto­rici. È comun­que soprat­tutto sul ter­reno della cri­tica dell’economia poli­tica che quella con­ce­zione è pro­fon­da­mente modi­fi­cata quando dall’analisi dei pro­cessi pro­dut­tivi e ripro­dut­tivi – in figure for­te­mente cen­tra­liz­zate e astratte – Marx passa all’analisi della cir­co­la­zione sociale delle merci, ricon­du­cendo i pro­cessi pro­dut­tivi ai pro­cessi di for­ma­zione del valore; poi riscen­dendo verso l’analisi del sala­rio e di con­se­guenza alla descri­zione delle classi sociali e dei modi di vita. Il mol­ti­pli­carsi e il dif­fon­dersi dei mec­ca­ni­smi di potere dise­gnano allora lar­ghi spazi quando la società diventa fab­brica, i pro­cessi di potere si mol­ti­pli­cano, diven­gono dif­fe­renti, e su que­ste dif­fe­renze si met­tono let­te­ral­mente in pulsazione.

Alla seconda dif­fe­renza: a fronte della «capi­ta­liz­za­zione» ovvero della «sta­ta­liz­za­zione della società» (che si pre­senta in maniera estre­ma­mente vio­lenta nell’«accumulazione ori­gi­na­ria») si dà anche in Marx una certa «socia­liz­za­zione dello Stato» che appare nel pro­cesso di tra­sfor­ma­zione del modo di pro­durre capi­ta­li­stico, dalla «sus­sun­zione for­male» alla «sus­sun­zione reale». Roberto Nigro ha soprat­tutto insi­stito su que­ste ana­lo­gie della sus­sun­zione fra Marx e Fou­cault; men­tre Pierre Mache­rey ha cer­cato di cogliere, attra­verso l’analisi di que­ste tra­sfor­ma­zioni della società, quella muta­zione del «sog­getto pro­dotto» in «sog­getto pro­dut­tivo» che sta per Fou­cault al cen­tro del pro­blema della soggettivazione.

Alla terza dif­fe­renza – quanto al comu­ni­smo mar­xiano, alla dit­ta­tura del pro­le­ta­riato e, di con­tro, al suo rove­scia­mento onto­lo­gico nella teo­ria della sog­get­ti­va­zione fou­caul­tiana – si può forse qui sta­bi­lire una qual­che somi­glianza, avendo pre­senti le pagine sul comu­ni­smo, il Gene­ral Intel­lect e l’«individuo sociale» nei Grun­drisse. Que­sta simi­glianza diven­terà evi­dente nelle Lezioni fou­caul­tiane a par­tire dal ’78, e pro­ba­bil­mente risulta il frutto di discus­sioni avve­nute con amici, col­le­ghi e col­la­bo­ra­tori nei cir­coli fou­caul­tiani dell’epoca e comun­que nella regi­stra­zione di una sto­rio­gra­fia di matrice mar­xi­sta – penso in par­ti­co­lare al lavoro di Edward P. Thompson.

Tra sin­go­la­rità e astra­zione
Que­ste somi­glianze avvi­ci­nano i due autori attorno ad alcune tema­ti­che cen­trali (Stato, società e sog­getto), ma solo col­lo­can­dole all’interno della dis­sol­venza del moderno, non dello svi­luppo di una nuova onto­lo­gia. Va notato tut­ta­via che la sot­to­li­nea­tura di que­ste dif­fe­renze (e somi­glianze) fra Marx e Fou­cault è pos­si­bile solo facendo rife­ri­mento al lavoro di Fou­cault che arriva al tor­nante bio­po­li­tico dei corsi del 1977–78 e ’78-’79. Le ana­lo­gie qui deter­mi­nate restano con­fuse. I con­cetti sono trat­tati in maniera ambi­gua. Basti pen­sare che, per Marx, nel primo e nel secondo esem­pio, ogni accen­tua­zione discor­siva non è data in ter­mini di sin­go­la­riz­za­zione ma piut­to­sto di estrema «astra­zione». L’opposto vale per Foucault.

 

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Lo stu­dio di Fou­cault a par­tire dai corsi del ’77-’78 e dei suoi scritti e lezioni quando, dopo il 1984, è avve­nuto non a par­tire dalla sua filo­so­fia, ma del suo essere mili­tante (i corsi al Col­lège de France hanno tona­lità sif­fatte che per­met­tono anche que­sta let­tura). Solo così è pos­si­bile defi­nire una base che vada oltre le even­tuali super­fi­ciali con­ver­genze fra il pen­siero mar­xiano e quello fou­caul­tiano su gover­na­men­ta­lità, bio­po­li­tica e sog­getto, per­met­tendo il comune inne­sto in un’ontologia del presente.

È in que­gli anni che Fou­cault avanza nell’articolazione di poli­tica e di etica, defi­nendo un «rap­porto a sé» che è – con­tro ogni ope­ra­zione indi­vi­dua­liz­zante ed ogni ripresa del sog­getto car­te­siano – costi­tu­zione col­let­tiva del sog­getto e sua immer­sione nel pro­cesso sto­rico. Ne viene una «desti­tu­zione» del sog­getto, che si pre­senta come scavo del Noi – del rap­porto Io/Noi – non solo come dive­nire ma come pra­tica della mol­te­pli­cità. Quando ana­liz­ziamo «la cura di sé» – su cui tanto si sof­ferma Fou­cault – avver­tiamo che essa non è ridu­ci­bile a pra­tica indi­vi­duale e tan­to­meno – ripeto l’approccio di Judith Revel – «come una rispo­sta indi­vi­duale ad un potere che tende a costruire e a pla­smare secondo le sue neces­sità la figura dell’individuo».

L’etica si pro­pone su que­sto incro­cio dell’essere e del fare. Ne segue il decen­tra­mento nel pro­cesso di sog­get­ti­va­zione che è tutto poli­tico. È qui che i cinici trion­fano e che la par­rê­sia si chia­ri­sce non sem­pli­ce­mente come volontà (di dire il vero) ma come ter­reno di verità. Ma per affer­mare que­sto occorre insi­stere, non solo sulla cop­pia potere-resistenza che intro­duce una asim­me­tria tra i due ter­mini – pur non pen­sa­bili l’uno senza l’altro – ma soprat­tutto sul carat­tere onto­lo­gico di que­sta differenza.

Ricor­renti genealogie

Infine, è chiaro che lo svi­luppo dei pro­cessi di sog­get­ti­va­zione con­duce a una rifor­mu­la­zione con­ti­nua della gram­ma­tica (e delle pra­ti­che) del potere. Se l’archeologia rico­no­sce la dif­fe­renza esi­stente fra ieri e oggi e la geneao­lo­gia spe­ri­menta la dif­fe­renza pos­si­bile fra domani e l’attualità – tutto ciò non lo si può fare se non attra­verso un’indagine accu­rata sul pre­sente, attra­verso «un’ontologia cri­tica di noi stessi». Ed è attra­verso que­sta onto­lo­gia cri­tica di noi stessi pian­tata nel pre­sente che noi abbiamo la pos­si­bi­lità, meglio, la neces­sità di met­tere in crisi le cate­go­rie del moderno. Molti esempi pos­sono a que­sto scopo esser fatti, ma quelli che soprat­tutto sem­brano fon­da­men­tali sono le pro­ble­ma­ti­che che riguar­dano la nuova qua­lità del «lavoro vivo» e le nuove dimen­sioni della sua capa­cità pro­dut­tiva; in secondo luogo, l’esaurirsi della dimen­sione del «pri­vato» e del «pub­blico» e l’emergere di quel ter­reno «comune» che il rap­porto Io/Noi determina.

Ora, l’importante di que­sta sequenza della sto­ria, dell’etica e del fare poli­tico è di costi­tuire la pro­ie­zione, meglio, il dispo­si­tivo di un’ontologia aperta, di una vera e pro­pria pro­du­zione di essere. È forse curioso ma non meno rile­vante, ricor­dare que­sta posi­zione fou­caul­tiana, svi­lup­pata in un’epoca nella quale le ultime risul­tanze dell’esistenzialismo sar­triano si erano impo­ste anche nell’ambito della sini­stra rivo­lu­zio­na­ria. Ora, con­tro Sar­tre, in Fou­cault non c’è libertà del sog­getto e neces­sità del fatto ma deter­mi­na­zione neces­sa­ria del con­te­sto onto­lo­gico e sua aper­tura, libertà dell’agire e del fare etici.

La minac­cia di Heidegger

Nel post-moderno, dopo Hei­deg­ger, l’ontologia non si defi­ni­sce più come luogo del fon­da­mento del sog­getto, ma come un agen­ce­ment lin­gui­stico, pra­tico e coo­pe­ra­tivo, come tes­suto della pra­xis: insomma è una onto­lo­gia dell’essere pre­sente che ha spez­zato la con­ti­nuità della filo­so­fia tra­scen­den­tale, così come era venuta fis­san­dosi a par­tire da Kant. Que­sta onto­lo­gia si strappa let­te­ral­mente dall’ontologia della moder­nità e dalla sua radice car­te­siana, dalla cen­tra­lità del sog­getto e si impianta sulla nuova mate­ria­lità dei «modi di vita». È qui abbat­tuto lo schermo epi­ste­mo­lo­gico come ponte neces­sa­rio verso la realtà. È Hei­deg­ger che pro­cede su que­sto ter­reno, ma è anche Hei­deg­ger che para­dos­sal­mente lo rende impra­ti­ca­bile quando l’operare tec­nico, che ora costi­tui­sce il mondo, si scon­tra con l’opera stessa. In Hei­deg­ger, dove l’essere non è pro­dut­tivo, la tec­nica affoga infatti la pro­du­zione in un destino inu­mano che intro­duce nella genesi della nuova onto­lo­gia un segno di per­ver­sione. La tec­nica ci resti­tui­sce un mondo deva­stato: qui ine­vi­ta­bil­mente riap­pa­iono allora i fan­ta­smi del sog­getto, ben rap­pre­sen­tati nell’esistenzialismo di Heidegger.

Fra Nie­tzsche e Fou­cault sem­bra invece defi­nirsi un’altra via. Essi assu­mono infatti l’essere del mondo per quel che esso è, lo sca­vano per cono­scere ciò che esso è dive­nuto, per mani­po­lare i detriti del pas­sato, la com­pat­tezza del pre­sente, l’avventura di ciò che sta davanti – colto nella sua realtà mate­riale e aperto nella sua tem­po­ra­lità. Per loro vale una spinta a riem­pire di sto­ria l’ontologia, a sta­bi­lire rela­zioni lin­gui­sti­che e dispo­si­tivi per­for­ma­tivi, rico­stru­zioni genea­lo­gi­che e volontà di verità, in modo che pro­du­cano – inte­ra­gendo – nuovo essere. Essi ten­dono ogni rap­porto su mac­chine costi­tu­tive di mondo. L’epistemologia tra­scen­den­tale è accan­to­nata – essa non può costi­tuire una garan­zia di cono­scenza per quell’ontologia del pre­sente den­tro la quale si pro­duce la nostra vita.
La costru­zione dell’avvenire

 

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In Fou­cault è espresso, nella maniera più alta, que­sto essere immersi in una nuova onto­lo­gia del pre­sente. Un essere comune: dove la dipen­denza reci­proca e mul­ti­la­te­rale delle sin­go­la­rità costrui­sce l’unico ter­reno sul quale sia pos­si­bile porre l’interrogativo cono­sci­tivo e cer­care la verità. Libe­rarsi di quella cul­tura signi­fica sba­raz­zarsi del sog­getto sovrano e del con­cetto di coscienza – e con essi di ogni teleo­lo­gia sto­rica. Signi­fica con­ce­pire l’ontologia come tes­suto e pro­dotto della pra­xis col­let­tiva. Alla metà degli anni Set­tanta, leg­gendo quanto Fou­cault aveva a quel momento pro­dotto, per­ce­pivo una impasse e mi chie­devo se essa non dovesse esser supe­rata, oltre il culto strut­tu­ra­li­sta dell’oggetto e la fasci­na­zione spi­ri­tua­li­sta del sog­getto, da una pul­sione alla sog­get­ti­va­zione, alla costru­zione onto­lo­gica de l’«a-venire». Ciò è avve­nuto a par­tire dalla fine dei Settanta.

In Marx siamo di fronte ad una mede­sima forma di radi­ca­mento onto­lo­gico. Un radi­ca­mento nella/della pre­senza sto­rica ed il suo rico­sti­tuirsi con­ti­nuo. Manca una qual­siasi meta­fi­sica del sog­getto. Il tes­suto onto­lo­gico è il mede­simo di quello fin qui segnato come «nuova onto­lo­gia». Assu­mere que­sta imme­dia­tezza onto­lo­gica non signi­fica non tenere in conto la diver­sità dei periodi sto­rici e con­se­guen­te­mente delle «forme di vita» alle quali la rifles­sione si applica, per esem­pio in Marx e Fou­cault, ma sem­pli­ce­mente essere in grado di con­fron­tarle su una base omogenea.

Una ver­sione più lunga di que­sto testo è pub­bli­cata nel sito Inter­netwww?.euro?no?made?.info

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