I big della Rete possiedono più informazioni su di noi di quanto immaginiamo. Hanno capitali ormai sconfinati e decidono cosa possiamo pubblicare ?on line e cosa no. ?E stanno diventando più potenti delle democrazie
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Siamo tutti sudditi di Google e Facebook

Siamo tutti sudditi di Google e Facebook

I big della Rete possiedono più informazioni su di noi di quanto immaginiamo. Hanno capitali ormai sconfinati e decidono cosa possiamo pubblicare ?on line e cosa no. ?E stanno diventando più potenti delle democrazie

Siamo tutti sudditi di Google e Facebook

I big della Rete possiedono più informazioni su di noi di quanto immaginiamo. Hanno capitali ormai sconfinati e decidono cosa possiamo pubblicare ?on line e cosa no. ?E stanno diventando più potenti delle democrazie

 

Qualcuno lo dice da tempo, come il venture capitalist Peter Thiel, già cofondatore diPayPal: «La libertà non è compatibile con la democrazia». Altri ci sono arrivati più di recente, come l’ingegnere di Google Justine Tanney, che ha proposto di trasferire tutto il potere amministrativo Usa all’industria hi-tech, con un Ceo al posto del presidente eletto.

Qualcun altro ci ha creato un progetto, come Patri Friedman, nipote dell’economista Milton e inventore dello SeaSteading Institute, la cui missione è costruire città nell’Oceano dove sperimentare sistemi politico-tecnologici senza aver tra i piedi lo Stato, con le sue noiose regole. Insomma, è il momento di «assaltare la cattedrale» e di mettere in dubbio «il dogma delle democrazia», considerata una forma di governo ormai inadatta «al libero sviluppo» delle menti migliori, della nuova élite che sta al piano più alto della Silicon Valley. E che, se liberata dai famosi “laccioli”, sarebbe in grado di sconfiggere i mali dell’umanità molto meglio dei politici.

Quella dei “tecnolibertarian” californiani e dei loro finanziatori può sembrare la battaglia eccentrica di una frangia estrema: gente che ha fatto troppi soldi passando troppe ore sui pc. Ma non è proprio così. Perché se qualche tycoon digitale lo scrive apertamente, altri stanno spostando la realtà verso lo stesso obiettivo senza dichiarazioni pubbliche né “think tank”. Semplicemente facendolo, cioè rendendo le aziende della Silicon Valley centri di potere effettivo, come e più degli Stati nei quali operano. Una trasformazione silenziosa che passa attraverso il controllo dei dati personali di miliardi di persone, un accumulo di capitali che non ha precedenti e l’immensa forza derivante dal fatto che i loro prodotti – motori di ricerca, mail, social network etc – sono sempre più indispensabili nella vita quotidiana di tutti. E se oggi si facesse un referendum per chiedere se rinunciare a Facebook o al Parlamento, chissà come andrebbe a finire.

La questione va un po’ oltre l’annoso dibattito fra “tecnoscettici” e “tecnoentusiasti”: cioè fra chi enfatizza le conseguenze positive della Rete e chi quelle negative. È ormai scontato che il Web è parte della nostra vita: e la possibilità di rimanere senza è confinata a romanzi di fantascienza come il recente “Internet Apocalypse”, di Wayne Gladstone. Il problema non è quindi se essere “a favore o contro” la Rete, ma è capire se i suoi principali attori – cioè le big company della tecnologia – non stiano andando oggi oltre ogni prevedibile ruolo, incidendo un po’ troppo nella nostra esistenza individuale e collettiva. Per poi decidere, eventualmente, se così va bene a tutti o se qualcosa si può e si deve governare.

Il potere dei dati 
Sappiamo da tempo che i comportamenti on line e i dati degli utenti vengono tracciati dai big della Rete per profilarli dal punto di vista pubblicitario, cioè per far apparire sui monitor di ciascuno inserzioni sempre più vicine ai suoi interessi: è in questo modo che Google ha conquistato quasi un terzo della torta pubblicitaria mondiale on line, seguita a distanza da Facebook, Yahoo e Microsoft; in Italia, l’azienda di Mountain View controlla una quota stimata addirittura al 55 per cento.

Quello che invece fino a poco tempo fa non si sapeva era che l’enorme quantità di informazioni su ognuno di noi che viene raccolta da queste aziende non solo può essere passata ai servizi di un governo (scandalo Nsa) ma può anche finire nelle mani di altri soggetti privati, dato che il modo con cui le company gestiscono questi dati è sempre più ramificato, complesso ed esteso. L’ultima questione, ad esempio, riguarda le nuove policy di Facebook, che ampliano il potere di tracciamento da parte del social network in modo così ampio che l’utente difficilmente potrà raccapezzarsi e tenerne controllo.

Ora Facebook si riserva ad esempio la possibilità di usare, nello stesso insieme di dati con cui poi crea il “profilo utente” che vende agli sponsor, anche le nostre attività su siti o app diversi da Facebook. Basta che il sito o l’app abbia il codice di Facebook (il “mi piace”, “condividi”, “fai log in con Facebook” etc) e l’azienda di Zuckerberg tiene traccia di ciò che l’utente fa anche su quel sito.

Anche i recinti del tracciamento di Google sono sempre più vasti: vi rientrano i dati della nostra navigazione, il numero di telefono, la carta di credito, i contenuti della mail (se usiamo Gmail) e altro ancora. Il profilo utente si combina di un tutt’uno degli altri servizi di Google, quindi anche le nostre ricerche su Youtube.

L’ultima frontiera, sia per Google sia per Facebook, è riuscire a capire che un utente da computer è lo stesso che usa lo smartphone. L’obiettivo insomma è schedare una persona su tutti i dispositivi, sfruttando vari metodi (log in nell’account Google e Facebook o calcoli probabilistici). Entrambe le aziende, così come le altre che tracciano i nostri dati, dichiarano di non venderli – con nome e cognome – agli sponsor (ufficiale invece è che vendono profili anonimi).

Tuttavia secondo Raymond Wacks, giurista e tra i massimi esperti mondiali di privacy on line, «rinunciando al controllo sulle nostre informazioni personali, stiamo dichiarando la nostra fiducia totale verso chi le colleziona». In pratica, ci mettiamo nelle loro mani. In più, nota Wacks, «le aziende Web ammettono di usare i nostri dati per le richieste delle agenzie governative: certo, dicono di concederli loro solo nei limiti di legge, ma è difficile stabilire se questo sia vero».

Anche il garante italiano per la privacy Antonello Soro è netto: «L’uso pubblicitario è solo uno degli effetti dell’attività di profilazione sistematica degli utenti che avviene a loro insaputa», dice. «Le capacità di elaborazione e di analisi dei dati, comprese quelle di reidentificazione di quelli anonimi, consentono a soggetti privati di costruire le nostre identità in ragione delle esigenze del momento: ad esempio, per accertare la nostra solvibilità economica, lo stato di salute, l’affidabilità nel luogo di lavoro etc».

La questione della riservatezza violata, nel suo complesso, si trascina da anni senza che nessuno abbia mai opposto vera resistenza. Anzi, la visione di Mark Zuckerberg – secondo il quale «la privacy è solo un retaggio del passato» – è stata nell’ultimo quinquennio quella dominante, che ha fatto “egemonia culturale”. Ora, forse, qualcosa nelle coscienze (e quindi nelle politiche) sta cambiando, anche per via dello scandalo Nsa. Secondo Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto digitale, «l’Europa ha cominciato a far capire che violazioni dei dati personali compiute nei confronti dei cittadini comunitari dovranno e potranno essere trattate anche nei Paesi dell’Unione». Anche il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, vuole rinegoziare gli accordi con gli Usa sulla privacy, perché « la sorveglianza segreta può distruggere la democrazia, anziché difenderla ». E la bozza di “Carta dei diritti della Rete” italiana, appena uscita dall’apposita commissione della Camera, al punto 4 è chiara sul tema dei dati personali. Finora, piccoli passi. E, come spesso accade nei rapporti tra tecnologia e legislatori, i secondi viaggiano in ritardo rispetto alla prima.

Chi decide sull’oblio
Le perplessità su un’efficace azione dell’Unione europea nei confronti dei big della Rete crescono se si pensa a quanto accaduto con la questione del diritto all’oblio . Un tema delicato: da un lato c’è il diritto della persona a non far apparire link “superati dal tempo” quando qualcuno digita il suo nome su Google (ad esempio, una condanna in primo grado poi seguita da un’assoluzione; o semplicemente una vertenza fiscale poi regolarizzata); d’altro canto, c’è il diritto dei cittadini a non veder cancellati dei pezzi di cronaca e di realtà su persone che poi magari vogliono accedere a cariche pubbliche o con cui si deve interagire in affari.

Come se ne esce? La soluzione più logica sarebbe forse quella di non cancellare niente, imponendo tuttavia che ogni pagina “superata” sia resa evidente come tale, con un link molto visibile alla notizia che la rende, appunto, sorpassata. Invece laCorte di Giustizia dell’Ue (su richiesta di un cittadino spagnolo che voleva far cancellare da Google la notizia di un vecchio pignoramento subito) il 14 maggio scorso ha deciso che ogni cittadino Ue ha diritto a chiedere a Google di deindicizzare ogni contenuto che lo riguardi, pubblicato su qualsiasi sito europeo. In altri termini, la Corte del Lussemburgo ha stabilito che a decidere sul diritto d’oblio, caso per caso, non sarà un giudice ma una corporation privata, la stessa Google. Se Mountain View insindacabilmente ritiene che una pagina deve essere “scordata”, la nasconderà dai risultati del motore di ricerca.

Diversa è la proposta della “Carta dei diritti della Rete italiana”, secondo la quale si può almeno «impugnare davanti all’autorità giudiziaria la decisione (di deindicizzare un link) per garantire l’interesse pubblico all’informazione». Qui infatti è in gioco una scelta di fondo: su temi così importanti si può lasciare che il “giudice” sia un’azienda privata? Non è che due o tre secoli di cultura sulla suddivisione dei poteri, così, rischiano di essere sepolti – questi sì – nell’oblio?

La dittatura delle policy 
Se in un ristorante vi servissero da mangiare in mezzo agli scarafaggi, probabilmente chiamereste i Nas. Perché un esercente, per quanto sia un imprenditore privato, ha l’obbligo di seguire alcune norme pubbliche, ad esempio in materia di igiene. Lo stesso non si può dire dei giganti della Rete, social network in testa: le regole di censura o di espulsione sono stabilite solo dal fornitore, che a piacimento può cambiarle come e quando crede.

L’internauta ha un unico diritto: andarsene, se questo non gli costa troppo in termini di relazioni sociali, economiche etc. È la dittatura delle policy: una volta cliccato “sì” alle condizioni di servizio, si diventa parte di uno Stato in cui non si è cittadini, ma sudditi.

Prendiamo il caso di Facebook: i termini sono unilateralmente imposti dal social network al suo miliardo e mezzo di utenti e la loro violazione conferisce ai proprietari del sito il diritto di rimuovere ogni tipo di contenuto. Facebook è al contempo legislatore, poliziotto e giudice: in caso di ricorso contro una rimozione di contenuti, infatti, a decidere sullo stesso è sempre Facebook. Non dissimili sono i termini d’uso diGoogle e peggio ancora è Twitter, che si riserva «il diritto di rimuovere o rifiutare, in ogni momento, la distribuzione di contenuti, di sospendere o chiudere utenze senza alcuna responsabilità». Si reclama insomma un principio di assolutezza, perché “una società privata può fare quello che vuole”.

Il problema non è irrilevante in quanto alcuni di questi siti, come Facebook e Google, hanno ormai una potenza e una diffusione tale che per milioni di persone sono quasi entrati nella “sfera del bisogno”: in molti settori, un’azienda che non è su Facebook è come se fosse morta; lo stesso dicasi per un politico o per un giornalista, per un cantante, per un artista; e altre professioni ancora, per le quali l’esistenza sul social network di Zuckerberg è ormai una condizione vitale. Ma, a parte questi casi, senza Facebook o Google oggi una buona fetta della popolazione mondiale si sentirebbe deprivata in termini di relazioni sociali, amicali, affettive. Che sono quindi alla mercé di un gruppo di misteriosi decisori che stanno da qualche parte nel mondo, tra l’Irlanda e la California, e che decidono se, quanto, quando “bannarci”.

Capitali senza freni 
Un anno fa il deputato del Pd Francesco Boccia propose una norma – la “Web tax” – per costringere le multinazionali digitali a pagare le tasse in Italia sui profitti realizzati nel nostro Paese. Infatti attraverso un sistema di triangolazioni e fatturazioni estere (specie in Irlanda, Olanda e Lussemburgo), le aziende tecnologiche riescono a eludere le imposte in modo molto robusto: in media, di quasi un terzo. Non solo Google e Facebook, ma anche Apple, Microsoft, LinkedIn, eBay, Twitter e altre. Si calcola che, esteso a tutto il mondo, il sistema consenta a Google di tenere nelle proprie casse ogni anno circa 9 miliardi di euro che altrimenti dovrebbe versare agli Stati in cui opera.

La norma proposta da Boccia aveva buone intenzioni ma alcuni limiti, tra cui quello di costringere di fatto migliaia di aziende di ogni Paese – comprese le startup – ad aprire una partita Iva in Italia per vendere qualsiasi cosa nel nostro Paese. Il risultato prevedibile sarebbe stato che la gran parte di queste società straniere (specie le più piccole, che sono spesso anche le più innovative) avrebbero preferito rinunciare a vendere nel nostro Paese: un disclaimer “il servizio non è disponibile in Italia” e fine. Di fronte alle moltissime proteste (di questi servizi diffusi on line si serve la parte più sveglia della piccola e media impresa italiana) la proposta di legge fu poi ristretta alle sole aziende «che vendono spazi pubblicitari online e link sponsorizzati»; ma anche in questa versione a molti sembrò un freno alla Rete, tanto che Renzi, appena diventato leader del Pd, decise di non farne niente perché i temi «della Web tax vanno posti in Europa altrimenti rischiamo di dare l’immagine di un Paese che rifiuta l’innovazione».

Tuttavia, un anno dopo, l’Unione europea non si è ancora mossa e le multinazionali hi-tech ringraziano. Commenta oggi Boccia: «È noto quanto le principali lobby al servizio delle multinazionali del Web lavorino per rinviare qualsiasi scelta di superamento delle asimmetrie fiscali tra i diversi paesi. L’Ue su questo produce solo gruppi di lavoro. Va così dalla direttiva del 2006: sono passati quasi 9 anni». Va anche notato che nessuno stimolo in questo senso è arrivato nemmeno dal semestre italiano di presidenza Ue, ormai in chiusura, come nota ancora Boccia: «Il governo Renzi che si era impegnato davanti all’intera opinione pubblica nel trovare una soluzione europea nell’ambito del semestre italiano, non ha fatto assolutamente nulla. E credo che sia stata una scelta politica, profondamente sbagliata».

Se sulle tasse l’Ue è ferma, un po’ meno timido sembra il suo atteggiamento in termini di Antitrust: l’europarlamento ha infatti approvato la mozione proposta dal dc tedesco Andreas Schwab che chiede la separazione del motore di ricerca di Google dalle altre attività del gruppo, per evitare posizioni dominanti. Incerta è tuttavia anche la fine che farà questa richiesta: che non ha effetti operativi e non è vincolante per la Commissione, la quale si è presa tempo per decidere. Come sempre.

In cerca di una governance 
Maurizio Costa, come presidente degli editori italiani (Fieg) è ovviamente parte in causa, specie per la questione dei diritti sui contenuti dei giornali on line usati da Google che in Spagna è recentemente scoppiata. La sua lettura della sitazione tuttavia sembra fondata nelle argomentazioni: «C’è un filo rosso che tiene insieme tutto ed è l’opacità dei comportamenti di Google, così come di altri “over the top” della Rete», dice. «Sono misteriosi i meccanismi di indicizzazione dei motori di ricerca, è misterioso il sistema di profilamento degli internauti, è misterioso il percorso con cui la nostra navigazione viene tracciata e quindi usata per i servizi commerciali. Ed è misteriosa anche l’entità dei ricavi pubblicitari, basati su meccanismi con cui vengono eluse le tasse fatturando dall’Irlanda». Conclude Costa: «È un paradosso: la Rete, che per natura dovrebbe essere sinonimo di trasparenza, ha tra i suoi principali attori dei soggetti che non sono per nulla trasparenti».

Di qui le tensioni e le (difficili) trattative in corso. Sul fronte della privacy, ad esempio, il Garante europeo Giovanni Buttarelli ha detto in una recente intervista che «per i prossimi 5-6 anni il dialogo sulle regole sarà tra Bruxelles e la Silicon Valley». Da un lato, è l’ammissione del ruolo ormai politico che svolgono le big corporation digitali, sdoganate come un potere statuale. D’altro lato, c’è l’attribuzione alla Ue di una funzione di controparte forte. Certo, se l’Europa davvero facesse qualcosa, avrebbe un potere contrattuale maggiore dei singoli Stati. Ma finora non è stato così.

E nel frattempo le multinazionali del Web, Google in testa, per espandersi guardano sempre di più ai Paesi emergenti, Asia e Africa in testa: il prossimo miliardo di persone collegate alla Rete, che fa sembrare poca cosa i 300 milioni di internauti europei. Questo non deve costituire un altro alibi per la Ue, ma fa pensare che forse la prima arma possibile contro lo strabordare di potere delle aziende tecnologiche sia la coscienza collettiva. Cioè la consapevolezza di ciascuno di noi – cittadino e navigatore, quindi “netizen” – delle dinamiche in cui è immerso, quindi dei propri diritti. Solo con la precondizione forte e globale di questa coscienza si può pensare a una governance della Rete che sia democratica anziché oligarchica, trasparente anziché opaca, al servizio di tutti anziché di pochi.

ha collaborato Alessandro Longo

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