Domanda: perché a Sergio Marchionne i sindacati degli Stati Uniti piacciono di più di quelli italiani, o meglio: di questa nostra Fiom? La risposta, in estrema sintesi, è che gli piacciono di più perché negli Stati Uniti i sindacati sono deboli; il sindacato dell’automobile è debole e, più o meno volentieri, consenziente, in una fase in cui tutti i sindacati industriali del settore privato sono deboli e, infine, perché i luoghi in cui i sindacati industriali sono nati e sono stati presenti per gran parte del Novecento sono stati investiti dalla deindustrializzazione, cioè: prima dalla ristrutturazione tecnologica, poi dalla delocalizzazione degli stabilimenti, e sempre, negli ultimi cinquant’anni, da una progressiva, continua perdita di posti di lavoro – ora accentuata dalla recessione in atto dal 2008.
Domanda: perché a Sergio Marchionne i sindacati degli Stati Uniti piacciono di più di quelli italiani, o meglio: di questa nostra Fiom? La risposta, in estrema sintesi, è che gli piacciono di più perché negli Stati Uniti i sindacati sono deboli; il sindacato dell’automobile è debole e, più o meno volentieri, consenziente, in una fase in cui tutti i sindacati industriali del settore privato sono deboli e, infine, perché i luoghi in cui i sindacati industriali sono nati e sono stati presenti per gran parte del Novecento sono stati investiti dalla deindustrializzazione, cioè: prima dalla ristrutturazione tecnologica, poi dalla delocalizzazione degli stabilimenti, e sempre, negli ultimi cinquant’anni, da una progressiva, continua perdita di posti di lavoro – ora accentuata dalla recessione in atto dal 2008. Detroit, la «capitale dell’auto», aveva 1.850.000 abitanti nel 1950, nel 1980 1.200.000, nel 2000: 950.000 e infine, nel 2009, 820.000.
Come si spiega un simile calo di popolazione? Ancora all’inizio degli anni Settanta, le prime volte che sono andato a Detroit, le fabbriche automobilistiche nella sua area metropolitana erano più di trenta, e a loro si aggiungeva, naturalmente, l’indotto. Le fabbriche e i quartieri operai erano ancora un grande cuore pulsante. Oggi in quella stessa area le grandi fabbriche sono meno di cinque (una decina se si allarga lo sguardo sull’intera regione circostante). I turisti vengono portati a fare il giro dei ruderi degli enormi stabilimenti vuoti, diroccati, con i vetri rotti; molti sono stati abbattuti o frazionati e su Internet si trovano gli indirizzi e le foto di com’erano e come sono.
Dunque, che posto è diventata la città in cui avevano sede e fabbriche la General Motors, la Ford e la Chrysler? Negli Stati Uniti il tasso ufficiale di disoccupazione è intorno al 10%. In realtà, la disoccupazione reale – quella che non permette di uscire dalla povertà: disoccupati + sottoccupati + scoraggiati – è intorno al 20% a livello nazionale, ma nei vecchi centri industriali è circa due volte più alta: a Detroit era intorno al 45% a metà settembre del 2009; a Flint, nello stesso stato del Michigan, dov’erano le grandi fabbriche della Gm, la disoccupazione reale era al 40% nell’aprile 2010. È chiaro che in simili situazioni il bisogno di lavorare è più forte di qualsiasi altra cosa, e anche pagare le quote sindacali diventa un problema.
Di conseguenza, la United Auto Workers, il sindacato dell’auto che ha sempre avuto in Detroit la sua roccaforte, oggi ha 355.000 iscritti tra i lavoratori attivi a livello nazionale. Nel 1979 ne aveva ancora oltre un milione e mezzo, quasi cinque volte di più. È debole, dicevo, ma sono deboli i sindacati industriali nel loro complesso. Nel 2009 la densità sindacale dell’intero settore industriale privato era del 7,2% e nel settore manifatturiero – la culla storica del sindacalismo anche negli Usa – era del 10,9%. Nel suo complesso, la percentuale dei lavoratori iscritti a un sindacato oggi a livello nazionale è al 12,3% (grazie agli alti livelli di sindacalizzazione nel settore pubblico). I dati sono del Bureau of Labor Statistics, pubblicati il 22 gennaio 2010.
Soccorso sindacale
Non entro nel merito della politica sindacale statunitense, che da più di cinquant’anni è stata notoriamente molto moderata e rivendicativa solo sul piano economico, con poche eccezioni. La moderazione politica non ha salvato i sindacati dagli attacchi di governi e imprenditori e da un declino drammatico; e, in quel contesto, la Uaw è stato uno dei sindacati più progressisti e spesso più combattivi e quindi quello che sto per dire riguarda un’organizzazione tradizionalmente meno arrendevole e consenziente rispetto alle altre.
Veniamo a questi ultimi anni. Prima di tutto: la Uaw ha contribuito in modo molto consistente – con «enormi concessioni», come ha detto il suo nuovo presidente Bob King – a cercare di salvare Ford, Gm e Chrysler da una possibile bancarotta già prima della recessione del 2008-9. Lo ha fatto nei contratti del 2007, accettando riduzioni salariali immediate e assumendo su di sé impegni finanziari e gestionali in materia di pensioni e assistenza malattia entrati in vigore all’inizio di quest’anno. Poi, nel 2009, nel pieno della crisi economica, la Uaw è di nuovo intervenuta, contribuendo concretamente a tirare fuori dal fallimento Gm e Chrysler, sottoscrivendo il 17,5% del capitale azionario della Gm e il 55% di quello della Chrysler.
Nel caso della Chrysler-Fiat di Marchionne, il sindacato è addirittura il maggiore azionista e quindi è presente nel nuovo Cda, ma con un solo voto (su 9), cioè non conta niente, e in più, ha sottoscritto l’impegno di non scioperare per cinque anni fino al 2014. In altre parole: ha avuto un ruolo decisivo nel salvataggio dell’azienda, in conseguenza di una durissima costrizione, e oltre a non contare nulla si trova con un cappio al collo. E ora che vendite e profitti nel settore auto stanno migliorando, il nuovo presidente vuole far uscire la Uaw dal Cda e rinegoziare gli accordi del 2009. Mi sembra abbastanza chiaro perché per Marchionne sia meglio trovarsi di fronte un interlocutore sindacale legato mani e piedi all’azienda e che, inoltre, appartiene a un «fronte sindacale» estremamente debole e non ha retroterra sociale su cui puntare i piedi.
La Ford era stata la prima delle «Tre Grandi» dell’auto a entrare in crisi, ed è stata anche la prima a uscirne, a evitare il fallimento grazie a una pesante ristrutturazione. Il ruolo della Uaw è stato decisivo. Nel contratto del 2007 aveva accettato la riduzione dei salari e dei benefit, cioè delle provvidenze extrasalariali che si aggiungono al salario. In particolare ha accettato che i nuovi assunti avessero un trattamento salariale ridotto della metà rispetto ai vecchi dipendenti. Il contratto firmato con la Ford è stato poi firmato anche con Gm e Chrysler. In più, però, il sindacato ha assunto l’impegno di coprire per intero, a partire da questo 2010, le assicurazioni (infortuni e malattia) che prima erano garantite dalle aziende in compartecipazione con il sindacato. A loro volta, pur di sgravarsi di quegli oneri, le aziende si sono impegnate a versare al sindacato somme considerevoli di denaro in un’unica rata o in più rate, perché poi è mancata loro la liquidità. Gli impegni prevedevano che la Uaw mettesse in piedi una sua società, che si chiama Veba (Voluntary Employee Beneficiary Association), destinata a ricevere i versamenti delle aziende (33 milioni di dollari la Gm, 15 la Ford e 9 la Chrysler) con cui organizzare autonomamente il sistema assistenziale per i dipendenti, i loro familiari e i pensionati. La Uaw ci mette una parte del suo fondo pensionistico e, se le aziende pagano il dovuto, il sistema dovrebbe essere garantito per almeno 80 anni. Ma, se le aziende non pagassero o lo facessero in azioni che perdono di valore, come voleva la Gm, oppure fanno fallimento, i lavoratori e i pensionati rimarrebbero senza niente in mano: questa è la ragione per cui il sindacato ha fatto di tutto, nel 2009, per impedire la chiusura di Gm e Chrysler.
Sempre più giù
C’è un’altra cosa. Negli ultimi accordi extracontrattuali, firmati e approvati a maggioranza dai lavoratori nel marzo 2009, è stato fatto un ulteriore passo avanti verso il basso: grazie alle riduzioni salariali, alla cancellazione della scala mobile, a riduzioni sugli straordinari e alla rinuncia ad alcuni giorni di ferie pagate, il costo orario del lavoro per le aziende dell’auto – costo «tutto compreso»: salario, benefici marginali e costi aggiuntivi per l’azienda – è stato ridotto a 55 dollari, e si è avvicinato a quello della Toyota o della Honda (49/51 dollari) che per le aziende era e rimane l’obiettivo da raggiungere. Vale a dire che salari e benefici nella fabbrica sindacalizzata si sono avvicinati a quelli dell’operaio delle fabbriche in cui il sindacato non ha mai messo piede. Non basta, comunque. Lo diceva chiaramente Il Sole24 ore del 28 aprile 2009: «L’obiettivo è di portare salari e benefit vicini a quelli dei lavoratori non sindacalizzati negli impianti statunitensi dei concorrenti internazionali, a cominciare dalle case giapponesi».
È chiaro che, insieme con i soldi, se ne vanno anche i diritti dei lavoratori in fabbrica. Tuttavia, sindacato e lavoratori non hanno avuto altra scelta che quella di firmare. Come ammetteva Bob King in un’intervista del 23 settembre: “Quanto ti trovi al 7% nel privato, non ti avvicini neppure ad avere il potere contrattuale necessario per rendere ai lavoratori la giustizia che meritano”. Non hanno avuto la forza per chiedere e tanto meno ottenere altro da quello che hanno avuto.
Alcune brevi considerazioni finali. Mi sembra giusto dire tre cose. La prima: la politica di distruzione dei sindacati, perseguita con accanimento da imprenditori e governi soprattutto dagli anni Ottanta in poi, ha avuto successo, ma ha anche causato il declino economico-sociale degli Stati Uniti, perché la ricerca speculativa del profitto a tutti costi da parte di dirigenti, azionisti e società finanziarie, senza riguardi per i bisogni della popolazione che lavora ha impoverito e indebitato le famiglie (l’indebitamento delle famiglie era pari al 132% nel 2008) e infine ha fatto crollare i consumi. La seconda: la stessa logica ha portato allo smantellamento progressivo del sistema industriale e produttivo del paese, nell’illusione che i profitti commerciali, quelli derivanti dalle compartecipazioni produttive all’estero e le astratte ricchezze costituite dall’aumento dei valori delle azioni in Borsa potessero sostituire la ricchezza prodotta in patria da un sistema produttivo efficiente e ridistribuita attraverso l’occupazione, il lavoro e i salari.
La terza, e conclusiva: il modello di relazioni industriali e sociali che Marchionne, questo governo e questa Confindustria vorrebbero estendere all’Italia, riducendo i diritti dei lavoratori, impoverendoli, e privandoli delle difese sindacali nei luoghi di lavoro, è un modello che negli Stati Uniti, nell’arco degli ultimi decenni, si è dimostrato fallimentare, non solo per chi lo ha subito e lo subisce, ma anche per chi, dalla sua adozione, è stato in grado di trarre un profitto, magari anche cospicuo, che però si è rivelato avvelenato improduttivo e a breve termine.
*stralci dell’intervento all’attivo dei delegati Fiom Cgil Lombardia, lunedì
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LA VISITA IN CINA
L’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha visitato ieri il padiglione italiano e quello cinese dell’Expo di Shanghai nell’ambito del suo viaggio in Cina dove avrà degli incontri istituzionali. Il gruppo Fiat non ha ancora solide basi produttive in questo paese, dopo alcuni accordi saltati.20%
FIAT-CHRYSLER E’ la quota attuale che il gruppo italiano detiene del costruttore di Auburn Hills. Se le cose andranno come auspicato a Torino, Fiat avrà a breve il 35% per poi puntare al 5027%
FIAT IN BORSA Sul Ftse Mib
di Milano, il titolo ha chiuso ieri
in salita, a 11,73 euro, in particolare sulle privilegiate (+4,31% a 8,235 euro) e sulle risparmio (+4,16% a 8,26 euro)
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