Tradotta dalla casa editrice Laterza l’ambiziosa opera dello studioso tedesco sulla globalizzazione. Un affresco sulla dimensione etica e sul rapporto di complicità che l’opinione pubbblica globale ha con il «potere del capitale»
Tradotta dalla casa editrice Laterza l’ambiziosa opera dello studioso tedesco sulla globalizzazione. Un affresco sulla dimensione etica e sul rapporto di complicità che l’opinione pubbblica globale ha con il «potere del capitale»
Nel 1986 usciva in Germania Risikogesellschaft, il libro che avrebbe dato notorietà internazionale a un sociologo poco più che quarantenne, Ulrich Beck. Il volume, tradotto in Italia con strano ritardo solo nel 2000 con il titolo La società del rischio, interveniva in un contesto politico-culturale, quello della metà degli anni Ottanta, in cui in Germania i Verdi assumevano il profilo di una forza politica non solo in ascesa elettorale ma in procinto di ridefinire i paradigmi del pensiero critico e le forme di militanza. A emergere era non solo la sensibilità ambientalista ma un’interrogazione, spesso declinata in termini regressivi, sugli effetti perversi della società industriale, sull’inadeguatezza del quadro nazionale per fare fronte alle minacce ecologiche, sui limiti della razionalità scientifica e dell’ideologia del progresso. Si tratta di temi che trovavano una ricca articolazione teorica e in Risikogesellschaft, che per questo può essere considerato come uno dei più autorevoli lasciti di quella stagione. Ci troviamo ancora in un mondo bipolare, seppure ormai in decomposizione. Le garanzie del welfare appaiono un dato ancora scontato, che è tuttavia attraversato da una crisi di legittimazione legata all’emergere di processi di individualizzazione, di mutamento delle relazioni fra i generi, di sgretolamento delle strutture della società fordista. La definizione della sicurezza, egemonizzata nel dopoguerra in termini di diritti e garanzie sociali, si sposta verso la percezione di un altro tipo di rischi, legati all’ambiente, all’inquinamento, alla minaccia del nucleare, alle esternalità della produzione industriale. In proposito, Beck parlava di transizione da una società della scarsità, incentrata sul conflitto classista per la redistribuzione del reddito e delle risorse, a una società del rischio, in cui la posta in gioco riguardava la spartizione dei rischi. Il tutto nel contesto di quella che veniva definita «seconda modernità» o «modernità riflessiva», caratterizzata dall’abbandono dell’adesione acritica e implicita a una serie di assunti ottimistici riguardanti la scienza, la tecnologia, il progresso.
L’autarchia del capitale
Molti degli spunti presenti in La società del rischio e nei fortunati volumi che Beck ha pubblicato nel corso degli anni, fra cui Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro (Einaudi) o Che cos’è la globalizzazione (Laterza), possono essere colti a un notevole livello di sistematizzazione in Potere e contropotere nell’età globale, la recente traduzione di un volume fra i più impegnativi dell’autore, uscito in Germania nel 2002 (Laterza, pp. 455, euro 22). Al centro dell’indagine si colloca l’esigenza di indviduare i possibili spazi di ricostruzione dell’agire politico nell’orizzonte della globalizzazione. Stando a un assunto largamente condiviso, l’integrazione dei mercati e la libera circolazione di capitali sempre più deterritorializzati hanno dato vita a una sfera economica autonoma sulla quali i poteri statali non avrebbero più una reale capacità di intervento. In un simile scenario, i gruppi economici transnazionali avrebbero la possibilità di esercitare la cosiddetta «opzione negativa», che consiste nel minacciare di investire altrove al fine di ottenere dai singoli stati le condizioni, giuridiche ed economiche, più favorevoli alla realizzazione dei loro profitti.
Nel delineare i tratti dell’«autarchia» del capitale, che costituisce uno dei principali motori dei processi di globalizzazione, Beck dedica un opportuno rilievo alle manifestazioni sempre più incisive di un «potere legislativo senza sovranità». Il riferimento è alla creazione di un «diritto privato globale» promosso non da istanze internazionali ma dalla giurisprudenza dei tribunali arbitrali, dalle regolamentazioni, dagli standard tecnici, dai modelli contrattuali. La lex mercatoria finisce così per porsi come istanza regolativa dello spazio transnazionale, ossia di uno «spazio dei flussi» che attraversa lo «spazio dei luoghi» delle sovranità statali, di uno «spazio virtuale che dischiude opzioni e opportunità strategiche nello spazio nazionale».
A fronte di simili sviluppi la politica appare disarmata. Ciò a parere di Beck è dovuta all’incapacità, insieme epistemologica e pratica, di liberarsi del modello chiave, il sistema nazionale-internazionale, su cui si è costruita la rappresentazione dello spazio politico della prima modernità. Il passaggio a una modernità riflessiva esigerebbe in primo luogo il superamento dello statocentrismo che ha plasmato le scienze sociali, in termini di nazionalismo metodologico, ossia di assunzione del quadro nazionale come contesto ovvio rispetto al quale calibrare la ricerca. Fuoriuscire da quella gabbia significherebbe accedere a una diversa ripartizione dei fenomeni, a una diversa configurazione dei problemi in grado di scongiurare il fatalismo che spinge a vedere nel presente un orizzonte in cui nulla può opporsi a un capitale che attraverso l’opzione negativa può imporre il proprio ordine al mondo invocando l’efficienza come forma sufficiente di legittimazione. Tale orientamento, sul terreno politico, dovrebbe tradursi nella tendenza da parte dello stato a cosmopolitizzarsi.
Un rinnovato cosmopolitismo
Nella riflessione di Beck, lo stato-nazione, il «grande perdente» della globalizzazione, svincolandosi da un sempre più inefficace esclusivismo territoriale, potrebbe dunque acquisire crescenti poteri di controllo sullo spazio transnazionale dei flussi e contrastare l’autarchia del capitale. La soluzione cosmopolitica è quindi individuata come l’unica reale alternativa a un ripiegamento regressivo di tipo sovranista o al realismo al ribasso dello stato neoliberale. Ciò non significa appellarsi a un improbabile stato mondiale che cancelli da un girono all’altro la carta del particolarismo politico per contrappore a un mercato unificato uno stato a sua volta unico, e a base democratica. Diversamente, la prospettiva lungo cui si muove Beck si avvicina, con una più marcata sensibilità sociologica, a quella di politologi come Martin Shaw o David Held.
In tale ottica lo stato cosmopolita accede a nuove possibilità di azione connettendosi e aprendosi a reti transnazionali formate da altri stati, istituzioni sovranazionali e organizzazioni di vario tipo. L’esigenza di collocare l’agire politico all’interno di una spazialità eccedenti i quadri dello stato del sistema nazionale-internazionale può essere facilmente condivisa. Più problematica, invece, appare la cornice in cui la inserisce Beck, quel riferimento al cosmopolitismo che per quanto accettabile in linea di principio rischia da una parte di peccare di astrattezza e dall’altra di fornire una copertura legittimante a pratiche verso le quali si possono nutrire ampie inquietudini. Non è un caso che in Potere e contropotere globale, per esplicita ammissione dell’autore, sia escluso dalla lente analitica la l’esercizio organizzato della violenza.
In proposito, nell’ultimo ventennio abbiamo assistito a varie forme di proiezione transnazionale dello stato e di formazione di reti deterrritorializzate operanti su scala globale che coinvolgevano apparati di stato quanto organizzazioni di altro tipo. Il caso delle extraordinary rendition è solo uno dei tanti esempi possibili. Sul fatto che ciò ci conduca a una governance cosmopolitica, però, si possono però nutrire non pochi dubbi.
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