Lula: «Abbiamo fatto una rivoluzione»

135 MILIONI AL VOTO
Alla vigilia del voto di oggi intervista di bilancio del presidente brasiliano. Che rivendica il radicale cambio (in meglio) del paese nei suoi otto anni al palazzo Planalto di Brasilia, spiega la guerra dei media contro di lui, nega «la continuità » con il suo predecessore Cardoso. E parla dell’America latina

135 MILIONI AL VOTO
Alla vigilia del voto di oggi intervista di bilancio del presidente brasiliano. Che rivendica il radicale cambio (in meglio) del paese nei suoi otto anni al palazzo Planalto di Brasilia, spiega la guerra dei media contro di lui, nega «la continuità » con il suo predecessore Cardoso. E parla dell’America latina
Giovedì scorso, alla vigilia del voto di oggi, il presidente Lula ha concesso una lunga intervista di bilancio e commiato, dopo gli 8 anni passati al palazzo Planalto di Brasilia, all’agenzia Carta Maior, fondata e diretta dal nostro amico e compagno Joaquim Palhares. All’incontro hanno partecipato il sociologo Emir Sader, anche lui nostro amico e compagno, per conto di Carta Maior, Carmen Lira, direttore del messicano La Jornada, e Martin Granovsky, dell’argentino Pagina 12.
Il Lula di oggi in cosa è diverso dal Lula del 2003?
La prima cosa che uno impara, una volta insediato alla presidenza della repubblica, è governare. Uno si stacca dalla sua vita di molti anni all’opposizione quando, nei dibattiti e nelle riunioni, diceva “io penso, io ritengo, io credo». Una volta al governo uno non pensa, non ritiene, non crede: uno fa o non fa. Il governo è un continuo prendere decisioni. Quando abbiamo creato il Pac, il Programma di accelerazione della crescita, ad esempio, abbiamo dovuto fare un governo nuovo e molto più efficiente. Questo è stato un apprendistato stupendo per me, che non voglio perdere dopo che avrò lasciato la presidenza. Quando io arrivai, nel 2003, al ministero dei trasporti si spendeva un miliardo di reais all’anno e oggi spendiamo 1.6 miliardi al mese. Abbiamo imparato a fare cose. Il giorno che la stampa brasiliana si deciderà a divulgare la rivoluzione che si è prodotta in Brasile, il popolo si renderà conto perché il governo gode dell’80% di approvazione dopo 8 anni di mandato. Se dipendesse dalla stampa io avrei il 10% e meno del 10%. Il fatto è che le cose stanno arrivando nelle mani del popolo. Il popolo sta ricevendo i benefici, sta vedendo che le cose si fanno. Questo è il grande cambiamento dal 2003 al 2010.
Lei dice, presidente, che avete fatto cose che un giorno la stampa divulgherà: non sono state divulgate attraverso il governo?
Qui in Brasile c’è un dibattito molto interessante. E non solo in Brasile. In Argentina c’è lo stesso dibattito, idem negli altri paesi dell’America latina. Perfino Obama ha detto che la Fox non si muoveva come un mezzo di comunicazione ma come un partito politico. Io non mi lamento molto della stampa perché credo di essere arrivato dove sono arrivato anche grazie alla stampa. Quindi io sono un difensore assoluto della libertà d’espressione e della democrazia. Però c’è gente che confonde la democrazia, la libertà di comunicazione con attitudini estemporanee. Non so se è una cosa di tutto il mondo, pare che le buone notizie non facciano vendere i giornali, solo gli scandali… Io terminerò il mio mandato senza aver mai pranzato con un proprietario di giornale o di televisione. Con loro ho mantenuto rapporti democratici, rispettosi. Ma credo che molte volte il popolo venga a sapere delle cose buone che accadono in questo paese solo perché siamo noi a divulgarle, attraverso la pubblicità del governo, o internet, o il blog di Planalto. Molte volte, se dipendesse da determinati media, ci sarebbe il silenzio completo. Per me l’arte della democrazia è questa, che le persone possano confidare nella qualità delle informazioni che ricevono, nella loro precisione e neutralità. Chi segue la politica brasiliana capisce che sarebbe molto più facile se alcuni media assumessero con chiarezza la loro connotazione di partito, così la gente si renderebbe conto di chi è chi. Ma non è così che le cose funzionano sui media brasiliani. Sembra che tutto sia indipendente, però basta leggere i titoli e si vede che l’indipendenza finisce dove comincia. Stiamo vivendo un processo di apprendimento: è pochissimo tempo che noi abbiamo la democrazia. In questo momento ci troviamo nel più lungo periodo di democrazia senza interruzioni del Brasile, a partire dalla costituzione dell’88 e dall’elezione del presidente Sarney nell’85. Vent’anni o poco più, è una democrazia molto recente che però si è molto rafforzata e ha fondamenti solidi. Qui si è eletto presidente un metallurgico e in America latina stiamo vedendo un progresso generale. Io credo che la democrazia si vada consolidando indipendentemente dai nostalgici che dicevano che un operaio metalmeccanico non sarebbe mai potuto arrivare in cima, né un indio, un nero o una donna. Stiamo rompendo questi tabù e stiamo mostrando qualcosa che deve essere valorizzato: la sinistra in America latina ha fatto una opzione per la democrazia e sta arrivando al potere in diversi paesi per via democratica. Chi fa un golpe non è di sinistra. In conclusione, le persone devono sapere che se l’informazione fluisse correttamente questo potrebbe facilitare la loro vita al momento di prendere le decisioni.
Sono questi tipi di comportamento dei media che hanno spinto qualcuno a parlare di una “stampa golpista” in Brasile?
Io non uso la parola golpismo. Ora, per capire è necessario seguire l’evolversi della stampa brasiliana e vedere quel che cercò di fare nel 2005. La oligarchia brasiliana, nel ’54, spinse Getúlio Vargas al suicidio. E’ importante ricordare che loro dicevano che Juscelino Kubitschek non poteva essere presidente né candidato, e se fosse stato candidato non poteva vincere, e se avesse vinto non avrebbe potuto governare. Questo dicevano nel ’55. Quell’oligarchia è la stessa di oggi, a volte non più rappresentata dai più vecchi ma dai più giovani, che hanno ereditato non solo il patrimonio ma spesso lo stesso comportamento e la stessa coscienza politica. Questo è un dato oggettivo. Poi spinsero João Goulart a dimettersi e appoggiarono il golpe militare del ’64. Bene, quando io sono stato eletto presidente, loro hanno pensato due cose: “Ok, rispettiamo la democrazia e lasciamo che l’operaio arrivi alla presidenza”. L’operaio ci arrivò e loro tifavano ed erano convintissimi che io sarei stato un fiasco totale e assoluto, e che la sinistra e il suo operaio metalmeccanico sarebbero stati travolti dall’incapacità di governare il paese. Che accadde? Che l’operaio ce l’ha fatta e ha cominciato realizzare cose meglio di loro. E allora loro hanno cominciato a diventare nervosi. Io ho un comportamento che viene dal movimento sindacale. La democrazia per me non è una parola a metà. E’ una parola intera. Ma qualcuno intende per democrazia solo il diritto del popolo a gridare che ha fame e io intendo la democrazia come il diritto di mangiare. Questa è la differenza fondamentale. Prendete i giornali e le riviste e guardate quel che hanno scritto negli ultimi tempi. Dubito che ci sia stato un presidente che abbia dato alla democrazia l’importanza che le ho dato io, perché so quanto sia importante per me. Ma qualcuno la vede diversamente, è normale, anche questo fa parte della democrazia. Ma è importante capire quel che è successo in Brasile. Il popolo brasiliano ha alzato la testa.
Nella campagna elettorale del 2002 lei disse che uno dei principali obiettivi del suo governo era garantire ai brasiliani tre pasti al giorno. Dopo 8 anni ritiene che questo obiettivo sia stato raggiunto?
Io penso che in questi 8 anni di governo siamo riusciti a fare una rivoluzione. Primo, essere riusciti a strappare 27 milioni di persone dalla miseria assoluta e al tempo stesso aver portato 36 milioni di persone a diventare classe media non è cosa da poco. Poi aver creato 15 milioni di posti di lavoro… In 8 anni abbiamo avviato programmi che toccano la parte più povera della popolazione, programmi semplici ma efficaci, come la Borsa Famiglia, Luce per Tutti, l’acquisto di alimenti e l’agricoltura famigliare… Sono politiche pubbliche che non erano previste nello scenario politico nazionale. Io credo che oggi il popolo brasiliano sia più felice, via meglio, anche se dobbiamo avere chiaro che c’è ancora molto da fare. Io spero che la companheira Dilma possa portare a termine il lavoro che noi abbiamo cominciato e che abbiamo dimostrato fosse possibile fare in Brasile. Non voglio sembrare presuntuoso, ma credo che, da un punto di vista di politica sociale, abbiamo fatto una rivoluzione, per quanto ancora da concludere. C’è molto da fare, perché non si può smantellare tutto l’apparato di esclusione di 500 anni in 8 anni. Ma poggiamo su una base straordinaria e io credo che la nostra esperienza possa essere valida anche per altri paesi. Perché per noi ci sono alcuni punti fermi: combinare crescita economica e bassa inflazione, per esempio, o andare all’aumento reale dei salari e tenere l’inflazione sotto controllo, o avere una politica orientata a far aumentare le esportazioni e allo stesso tempo una politica di rafforzamento del mercato interno brasiliano. Tutto questo prima era impossibile in Brasile.
C’è qualcuno che elogia il suo governo sostenendo che Lula è la continuità del suo predecessore Fernando Henrique Cardoso…
Chiariamo subito una cosa: noi siamo arrivati dove siamo arrivati perché abbiamo fatto cose diverse. Quando io m’insediai alla presidenza, la Petrobras valeva 13 miliardi di dollari. Oggi vale 220 miliardi. Le cose sono cambiate. Quando io arrivai qui, nel governo la parola d’ordine era che non si poteva spendere, non si poteva investire perché prima di tutto bisognava garantire il superavit primario, bisognava stare attenti al deficit. Cos’è successo, poi? Noi che eravamo succubi del Fmi, ci siamo liberati del Fmi. Noi che non avevamo riserve, a fine anno avremo 300 miliardi di dollari in riserve. Noi che eravamo debitori del Fmi siamo diventati suoi creditori. Poi è la situazione del Brasilea essere radicalmente mutata: noi abbiamo “incluso” i milioni che erano esclusi e che non erano tenuti in nessun conto. Eravamo un paese capitalista senza capitali, senza crediti, senza investimenti. Io non mi curo molto di certe etichette. Quando cominciai la mia vita politica, nel sindacato, c’era gente dell’ultra-sinistra che mi chiamava agente della Cia, soprattutto la gente del Pcb di allora che non poteva sopportare che io fossi contro l’intervento russo in Afghanistan. Le persone volevano sapere il mio profilo ideologico e molte volte, nella riunioni, mi chiedevano «tu sei comunista?”. Io rispondevo “no, sono tornitore meccanico”. Non mi sono mai piaciute le etichette. Ogni paese ha la sua particolarità. Io credo che i Kirchner, sia Néstor sia Cristina, abbiano il loro stile di governo. Il dato concreto è che l’Argentina sta migliorando. Il nostro caro Pepe Mujica ha il suo stile di governo e il dato concreto è che l’Uruguay sta migliorando. Io ho il mio stile e il fatto concreto è che il Brasile sta migliorando. Evo Morales ha il suo modo di fare e il fatto concreto è che la Bolivia sta migliorando. Questo vale per tutti ed è questo che mi interessa. È la stampa che dice: “Lula è buono e Chávez è cattivo». Chavez deve essere buono per il popolo del Venezuela e io devo essere buono per il popolo del Brasile. E la verità è che il Venezuela con Chavez ha migliorato. A quante elezioni Chavez ha partecipato in questi anni? Le ha vinte tutte e ne ha appena vinta un’altra. “Ah, però non è riuscito ad avere la maggioranza assoluta in parlamento”… Ottimo, questo io credo che sia buono per Chavez, perché dovrà impegnarsi nel dibattito politico con più forza, impegnarsi di più nella democrazia. Io lo trovo straordinario.

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