Morti per divisa. Aldro e gli altrri, una storia sola

FERRARA. Risalire la china del dolore, cercare di ribaltare le notizie per come vengono diffuse e bucare il muro che lo Stato erige quando vuole difendere se stesso. A Ferrara il quinto anniversario della morte di Federico Aldrovandi è stato un momento di incontro per i familiari che hanno avuto un padre, un figlio o un fratello morto per cause che vanno comunque ricondotte ad una divisa.

FERRARA. Risalire la china del dolore, cercare di ribaltare le notizie per come vengono diffuse e bucare il muro che lo Stato erige quando vuole difendere se stesso. A Ferrara il quinto anniversario della morte di Federico Aldrovandi è stato un momento di incontro per i familiari che hanno avuto un padre, un figlio o un fratello morto per cause che vanno comunque ricondotte ad una divisa.
Si è discusso della possibilità di creare un’associazione e, come ha spiegato Patrizia Moretti, per ora siamo arrivati ad «un’unione di fatto». In una sala dove a tratti il dolore sembrava portare via tutto con sé si sono conosciuti e abbracciati i genitori di Federico Aldrovandi, il giovane figlio di Aldo Bianzino, la sorella di Giuseppe Uva e quella di Stefano Cucchi, il padre di Gabriele Sandri, e Haidi che è la mamma di Carlo Giuliani. Tra il pubblico era seduto anche Stefano Gugliotta, il ragazzo picchiato dalla polizia al termine di una partita Roma-Inter di alcuni mesi fa. Tra tutti, questo ragazzone così emozionato sembrava un sopravvissuto. «Quello che mi è successo mi ha cambiato radicalmente la vita ma io posso dire che sto vivendo con coraggio anche grazie a queste persone», ha detto Gugliotta.
Sono molti gli aspetti che accomunano queste storie che sembrano snodarsi lungo un unico filo che ha creato comunanza e che in certi momenti è stato il solo appiglio al quale reggersi. Lo dice Ilaria Cucchi raccontando: «Quella sera che sconvolta dal dolore mi misi a cercare su internet e trovai Patrizia». «Dobbiamo essere tutti uniti per dare forza alle famiglie che non ce la fanno – ha continuato la sorella di Stefano, morto nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini di Roma – perché si tende a pensare che un fatto così non possa accadere invece può succedere a chiunque».
Questi familiari si sono cercati loro malgrado e probabilmente non avrebbero mai pensato di arrivare fino a qui. Lo spiega Lucia Uva che sta lottando per avere un processo per la morte del fratello: «Giuseppe aveva 43 anni, è stato portato in caserma e picchiato e tre ore dopo è finito all’ospedale, ma il magistrato ha interrogato i giornalisti che hanno diffuso le notizie mentre noi non sappiamo ancora nulla sulle indagini». L’inchiesta finora ha puntato su due medici che hanno somministrato dei farmaci a Giuseppe ma non si è occupata di quello che è accaduto nella caserma. E poi le sue parole puntano dritte al cuore, al senso della giornata ferrarese: «Io vado avanti comunque anche se mi sento dare della visionaria, io sono arrivata fin qui anche grazie al sostegno di Patrizia e di Fabio (Anselmo, lo stesso legale che ha seguito la famiglia Aldrovandi e Cucchi, ndr)». «Io voglio un pm come quello di Ferrara», urla Lucia e il riferimento è al lavoro del magistrato Nicola Proto che ha indagato sulla morte di Federico e sulle omissioni nelle indagini ed è riuscito ad ottenere le quattro condanne a tre anni e sei mesi per gli agenti della Questura ferrarese (il processo d’appello è già stato fissato a maggio 2011). Ma anche a Ferrara c’era stato un momento in cui nessuno stava indagando sulla morte di un ragazzo di 18 anni che la sera prima era andato con gli amici a seguire un concerto in un centro sociale. Fino al grido di mamma Patrizia sul blog.
La strada comune
C’è qualcos’altro che accomuna le storie di queste vittime: l’ immagine che è stata data di chi è morto. Lo ricorda Haidi Giuliani : «La prima cosa è criminalizzare la vittima». Così Federico, Stefano e Aldo erano dei «drogati», Gabbo era un ultras che voleva provocare degli scontri, Carlo era un «punkabestia» senza una famiglia alle spalle. Elia Bianzino, che ha 24 anni, riassume così l’ombra che si è allungata sulla morte del padre Aldo, deceduto nel carcere di Perugia due giorni dopo essere stato arrestato perché nel suo giardino coltivava alcune piante di marjuana: «Forse noi non abbiamo avuto la prontezza e la lucidità di fare le cose più giuste fin dall’inizio – riflette Elia -e questo può capitare perché quando si parla di droga o di gente che ha delle abitudini diverse dalla normalità queste cose vengono sempre viste sotto una luce diversa».
Le difficoltà a creare un progetto comune le ha spiegate Haidi Giuliani che otto anni fa, nel 2002, provò proprio a realizzare un incontro tra parenti di vittime. A Bologna si riunì con le associazioni dei familiari della strage alla stazione del 2 agosto 1980, di piazza della Loggia a Brescia, di via dei Georgofili a Firenze e con altri. Quel tentativo non andò in porto perché «ci fu la divisione fra vittima innocente e vittima che se l’era andata a cercare; questo ha impedito finora la nascita di una rete di questo tipo ma quando uno è vittima, basta, non occorre aggiungere nient’altro». E allora la mamma di Carlo Giuliani si è chiesta a Ferrara: «Chi e che cos’è una vittima di Stato? Il punto dirimente è quello di decidere se vogliamo occuparci del singolo che compie un’azione criminale o se vogliamo occuparci di una società che collabora a depistare, a diffondere falsità e bugie – spiega – non dobbiamo aver paura della politica perché noi facciamo politica e la facciamo anche spedendo una lettera al giornale». «Lo Stato siamo noi» ha ripetuto più volte la mamma di “Aldro” spiegando che la richiesta di giustizia non è contro le istituzioni e che «ammettere i propri errori è un segno di democrazia e civiltà». E’ una linea di confine netta: «Non siamo contro la polizia ».
Luci di ringraziamento
La giornata di Ferrara è stata lunga e si è conclusa con le fiaccole che hanno illuminato via Ippodromo, la strada dove Federico è stato fermato dalla polizia. La strada dove si affaccia l’appartamento di Anne Marie, la donna camerunense la cui testimonianza è stata così preziosa per la parte civile nel processo. Anche per Stefano Gugliotta sono state importanti le persone che si sono affacciate alle finestre quella sera quando la polizia l’ha fermato e il video girato da un residente che ha mostrato prima la discussione con gli agenti e poi il pestaggio. Chiude il cerchio Lucia Uva: «Se quella sera qualcuno avesse alzato la voce anche per mio fratello forse lui oggi potrebbe raccontare la sua storia».

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password