Quando la piazza entrò in Parlamento

La ruota della storia ha un suo ritmo imprevedibile. Ci sono anni nei quali arranca, altri nei quali accelera la sua corsa. La prima proposta di legge per l’introduzione del divorzio (un «piccolo divorzio» venne definito, perché previsto solo in alcuni drammatici casi) venne avanzata dal socialista Sansone nei primi anni ’50 ma si smarrì senza clamore in qualche cassetto di Montecitorio.

La ruota della storia ha un suo ritmo imprevedibile. Ci sono anni nei quali arranca, altri nei quali accelera la sua corsa. La prima proposta di legge per l’introduzione del divorzio (un «piccolo divorzio» venne definito, perché previsto solo in alcuni drammatici casi) venne avanzata dal socialista Sansone nei primi anni ’50 ma si smarrì senza clamore in qualche cassetto di Montecitorio. Nel 1965, un altro socialista, l´onorevole Fortuna, presentava sullo stesso argomento una nuova, assai più liberale proposta firmata anche dal liberale Baslini, che nel giro di pochi anni verrà approvata dal Parlamento e diventerà legge. Ricordo la prima manifestazione pro-divorzio che si svolse a piazza del Popolo, a Roma, promossa da una nuova organizzazione radicale, la Lid (Lega italiana per il divorzio).
La piazza era piena, festosa, allegra, una folla incuriosita, persino divertita, per una manifestazione che qualcuno aveva definito «un´americanata». C´erano soprattutto i giovani, ma io ricordo un pensionato che stringendo al suo fianco una donna anziana ormai con tutti i capelli bianchi, mi disse: «Siamo venuti perché spero proprio di poterla sposare, prima di morire. Lo scriva, lo scriva». Erano i cosiddetti «fuori legge del matrimonio». Pochi anni dopo avrebbero potuto realizzare il loro sogno.
All´alba del primo dicembre 1970, infatti, alla Camera, dopo un dibattito che era durato tutta la notte, il presidente Sandro Pertini annunciava il risultato del voto. Avevano votato «sì» 319 deputati, solo 286 i contrari. Avevano votato contro l´introduzione del divorzio solo democristiani e missini. Il Senato aveva già fatto la sua parte, approvando la legge Fortuna poche settimane prima.
Una vittoria resa possibile da vari fattori: la crescita, al di fuori dei partiti e spesso contro i partiti, di forti movimenti di giovani e donne per la conquista di nuovi diritti civili, le divisioni del mondo cattolico percorso dai fermenti postconciliari, le difficoltà della Dc stretta tra le pressioni vaticane e il condizionamento dei partiti laici che partecipavano al governo. Le elezioni politiche di due anni prima, nel maggio del 1968, avevano visto una sia pur modesta affermazione delle forze laiche. Ma solo Aldo Moro aveva riconosciuto negli umori e negli orientamenti della pubblica opinione i segni di una novità decisiva: era iniziata, ammoniva con lucidità Moro, la fine della stagione dell´onnipotenza dei partiti. A Trento, a Pisa, a Torino, persino alla Cattolica di Milano erano già cominciate le occupazioni delle università: non era questo il segno di un cambiamento di fase, di una crisi del rapporto tra i giovani e i partiti che pretendevano di rappresentarli? Moro ne intravedeva tutte le possibili conseguenze. E consigliava alla Dc di muoversi con prudenza.
In effetti la Dc si mosse con prudenza, stretta e incerta tra l´obbligatoria alleanza con i laici (socialisti, repubblicani, liberali) che le consentiva di governare e il richiamo all´obbedienza che le giungeva sempre più pressante dalle gerarchie vaticane. E dunque, prudentemente, il governo di centrosinistra, presieduto dal democristiano Rumor, si dichiarò «agnostico» sulla questione del divorzio, rimettendosi alla valutazione e al giudizio finale del Parlamento. Può darsi che la Dc pensasse di poter rinviare il difficile momento della scelta o di ridimensionare, nel corso del dibattito, le norme della legge, escludendo ad esempio dalla possibilità del divorzio i matrimoni concordatari (era la richiesta “minima” delle autorità ecclesiastiche). Le cose però andranno diversamente.
In prima lettura la proposta di legge Fortuna verrà discussa e approvata a Montecitorio il 28 novembre del 1969 con il voto compatto di socialisti, repubblicani e liberali. E dei comunisti. Inutile era stato dunque l´appello che pochi giorni prima Giorgio La Pira aveva rivolto al Pci per indurli all´astensione su una legge che a suo avviso era «il segno più marcato di una civiltà borghese in piena decadenza. Togliatti, Gramsci e Lenin», aggiungeva l´ex sindaco di Firenze, «se fossero vivi avrebbero certamente agito così». Il Senato poi bocciò la proposta per otto voti ma l´appello di La Pira rimase senza esito: il Pci aveva ormai deciso di sostenere la legge Fortuna.
Nel frattempo, a maggio, il Parlamento aveva approvato un disegno di legge per la istituzione di un referendum abrogativo. L´iniziativa, suggerita dal Vaticano e fatta propria dalla Dc, avrebbe dovuto consentire la bocciatura popolare di una legge sul divorzio che fosse stata approvata dal Parlamento. Le cose, come si sa, andranno ben diversamente. Ad agosto, finalmente, si insedierà un nuovo governo, presieduto questa volta da Emilio Colombo. In ottobre il Senato approva la legge Fortuna che dovrà passare ora all´esame dei deputati.
Ma il paese non sta fermo: si moltiplicano le manifestazioni a favore del divorzio, alimentate e irrobustite anche dalla presenza di un combattivo movimento femminista. E mentre dall´Osservatore Romano e personalmente da Paolo VI giungeva un ripetuto ammonimento alla Dc a non procedere sulla strada dell´approvazione di una legge che avrebbe rappresentato un grave vulnus inferto alla morale e al Concordato, il gesuita José Diez Alegria sosteneva che l´indissolubilità del matrimonio non apparteneva né alla fede né alla dottrina.
La ruota della storia stava accelerando ormai la sua corsa. La legge sul divorzio, approvata in Parlamento il primo dicembre 1970, sarà confermata, nel maggio del 1974, a grande maggioranza da un referendum popolare.

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