Il libro di Guido Panvini ricostruisce il clima nel Paese durante gli anni di piombo quando anche insospettabili scelsero la lotta armata
Il libro di Guido Panvini ricostruisce il clima nel Paese durante gli anni di piombo quando anche insospettabili scelsero la lotta armata
DURANTE I CINQUANTACINQUE GIORNI DEL SEQUESTRO DI ALDO MORO, ROSSANA ROSSANDA INDICÒ UNA CONTINUITÀ NELLE MATRICI CULTURALI DEI BRIGATISTI RISPETTO ALLE PAROLE D’ORDINE DELLO STALINISMO, parlando di un «album di famiglia» (Il Manifesto, 2 aprile 1978). In quelle settimane, un altro punto di riferimento della cultura di sinistra, quale Giorgio Bocca, allargò l’ambito d’origine del terrorismo italiano anche ad alcuni spezzoni del mondo cattolico, parlando di «cattocomunismo». (Il terrorismo italiano, 1970/78, Garzanti, 1978). L’incandescente polemica politica scatenata soprattutto dalle riflessioni di Rossanda – in realtà molto più complesse di quanto fossero disposti ad intendere molti suoi interlocutori – tradusse in termini di conflitto strumentale una questione cruciale per la storia italiana, ossia la ricostruzione delle matrici culturali della violenza politica.
Bene ha fatto Guido Panvini ad iniziare il suo ottimo libro Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano (Marsilio, 2014) richiamando proprio le analisi a caldo di Rossanda e Bocca, con cui condivide la volontà di non limitarsi ad interpretare la violenza politica quale semplice rigurgito irrazionale. Come già nel precedente Ordine nero, guerriglia rossa (Einaudi, 2009), Panvini analizza l’insorgenza della violenza politica in Italia collocandola in un contesto entro il quale risultano determinanti le reazioni delle diverse culture politiche nei confronti dei processi di modernizzazione in corso nel Paese. Nella fattispecie, con riguardo agli ambienti cattolici significa analizzare le trasformazioni dell’Italia contemporanea in costante rimando al Concilio Vaticano II. Chiunque coltivi una visione monistica della Chiesa cattolica dovrebbe leggere la ricostruzione di cosa il Concilio provocò nel mondo cristiano, con il venir meno dell’identificazione acritica fra Cristianesimo e Occidente. In quel contesto, molti giovani cattolici si socializzarono all’impegno simpatizzando con i movimenti di liberazione nazionale in Africa, Asia ed America Latina. Opportunamente, il secondo capitolo del libro (Alla destra del Padre) mostra l’altra faccia della luna, analizzando le posizioni dei cattolici tradizionalisti vicini alla destra radicale. Qui a flirtare ambiguamente con la violenza vi erano quanti ritenevano la democrazia liberale un argine troppo friabile contro il comunismo e vivevano la modernità quale «cospirazione». Ambiguità verso la violenza v’erano anche fra i cattolici di sinistra, come emerge dal quarto capitolo («Il nodo della violenza tra post-concilio e contestazione»), nel quale si ricostruisce come la critica dello sfruttamento e della mercatizzazione della società divenga per alcuni avversione per la democrazia e ricerca di vie insurrezionali.
Il valore aggiunto del libro è costituito dalla capacità di intrecciare piani diversi: Panvini ci guida sapientemente lungo processi che vedono mescolarsi le grandi questioni di un mondo in trasformazione con storie di vita di persone che scelgono esperienze di militanza radicale, fino, in alcuni casi, ad entrare nel gorgo della lotta armata.
Due sono le questioni in merito alle quali il libro di Panvini mi ha indotto a riflettere, una volta terminata la lettura. La prima concerne la profondità della frattura che in Italia separa la società dalle istituzioni. L’epilogo del libro lo sottolinea attraverso il resoconto di un accadimento dotato di elevato impatto simbolico: il 13 giugno 1984 i Comitati comunisti rivoluzionari (Cocori) consegnano il proprio arsenale al Cardinale di Milano, Martini, ossia alla Chiesa. Frutto della «silenziosa attività che la Chiesa aveva svolto nell’azione sociale e nella riconciliazione» (p. 384) quell’atto ci interpella per le sue implicazioni politiche. A tal punto giunge la sfiducia nello Stato, che la Chiesa in Italia finisce per supplire anche alla funzione cardine della moderna statualità: garantire il monopolio dell’uso legittimo della forza. Il secondo spunto che induce questa lettura richiama l’ambiente complessivo entro il quale Panvini ha condotto la sua analisi. Il «focus» concerne le sorgenti di alcuni percorsi che, dalla militanza in corpi intermedi cattolici, scaturiscono nella violenza politica. Eppure, per delineare tali esperienze l’autore ricostruisce magistralmente l’intero contesto del mondo cattolico negli anni Sessanta e Settanta. Il Concilio Vaticano II costituisce l’immenso punto di svolta di una stagione problematica, innovativa e fertile, come emerge appieno anche dal bel libro di Giuseppe Battelli (Società, Stato e Chiesa in Italia), edito da Carocci nelle scorse settimane. Il confronto serrato con la «multiforme modernità » produce nel mondo cattolico risposte articolate. È da rimarcare quanto questo pluralismo interno al cattolicesimo italiano sia sopravvissuto alle scelte eversive di alcune minoranze e al susseguente richiamo all’ordine delle gerarchie, rimanendo a volte latente durante le stagioni in cui più forte è risultato l’allineamento unitario e antemurale guidato dalla Cei. Ma senza mai disperdersi del tutto. In questi anni, a molti è capitato di incontrare esponenti politici che parlano «a nome dei cattolici» (con il sottinteso che solo loro – non certo altri – possono farlo e quindi possono rappresentare politicamente i cattolici). Salvo poi verificare empiricamente quale varietà di posizioni politiche possano germogliare all’interno dello stesso mondo cattolico. Papa Francesco pare volgersi coraggiosamente a tale pluralità considerandola quale ricchezza e lievito potenziale della sua azione riformatrice. Sono da attendere anche da questa variegata filigrana i contributi di un pensiero che sappia essere critico di come oggi vanno le cose nel mondo.
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