La rabbia di Fincantieri

SVEGLIA OPERAIA

Dai cantieri di tutto lo stivale hanno sfilato ieri a Roma i lavoratori Fincantieri. Una manifestazione unitaria – di Cgil, Cisl e Uil – per chiedere al governo un tavolo sulla cantieristica. Il piano di tagli è stato (per ora) scongiurato. Ma senza investimenti non si andrà  molto lontano. E la preoccupazione rischia di diventare disperazione. Come nel caso di Vincenzo. Licenziato da una ditta di appalto, e poi suicidatosi

SVEGLIA OPERAIA

Dai cantieri di tutto lo stivale hanno sfilato ieri a Roma i lavoratori Fincantieri. Una manifestazione unitaria – di Cgil, Cisl e Uil – per chiedere al governo un tavolo sulla cantieristica. Il piano di tagli è stato (per ora) scongiurato. Ma senza investimenti non si andrà  molto lontano. E la preoccupazione rischia di diventare disperazione. Come nel caso di Vincenzo. Licenziato da una ditta di appalto, e poi suicidatosi
ROMA. Tutti i dipendenti di Fincantieri sembrano calati a Roma alla stessa ora. Una manifestazione molto più grande e incazzata di quella dell’anno scorso. Merito della crisi, che sta mordendo il settore della cantieristica, e della completa assenza di una politica industriale. Aprono i napoletani di Castellamare di Stabia, ancora scossi per la tragica morte che ha funestato la vigilia del corteo. Un operaio, Vincenzo di Somma, si è tolto la vita, impiccandosi. Due anni fa era stato licenziato da una ditta che lavorava in appalto per Fincantieri. Continuava però a partecipare alle manifestazioni, ricordano i suoi compagni, e forse sarebbe sceso in piazza anche ieri.
Il «miracolo unitario» del giorno dopo «il dramma delle uova» di Treviglio viene celebrato con un mezzo passo indietro delle burocrazie rispetto al protagonismo degli operai. Quelli di Cisl e Uil si prestano qualche minuto alle fotografie, urlando slogan insieme agli altri. Solo qui, a beneficio di telecamere e fotografi, si vedono persino bandiere dell’Ugl (il sindacato fascista fino a poco tempo fa guidato dalla Polverini). Poi solo Giorgio Cremaschi e altri dirigenti Fiom Cgil restano a reggere lo striscione d’apertura insieme «alla massa». Poco più dietro lo spezzone dei sindaci, con gonfaloni e fascia tricolore, preoccupati per le tragedie territoriali che si annunciano in caso di chiusura degli stabilimenti. Subito dopo, e fino alla fine, la macchia rossa compatta delle bandiere Fiom, che in Fincantieri riceve un’abbondante maggioranza assoluta di iscritti e consensi. Qualche petardo scoppia qua e là, lungo il percorso, per «rompere il silenzio» che circonda le vicende del lavoro. Ma nessuno si spaventa.
«Questa manifestazione ha uno scopo immediato – spiega Cremaschi – far aprire un tavolo alla presidenza del consiglio, a palazzo Chigi. È un anno che ci prendono in giro, da una sede all’altra. Qui serve un piano strategico, investimenti e commesse sui cantieri, per renderli più efficienti. Non eliminando i lavoratori, ma migliorando le tecnologie». La situazione occupazionale sembra già molto compromessa, con l’indotto costretto a pagare per primo – e pesantemente – il prezzo del calo delle commesse. Un gruppo di operai provenienti dal Bangla Desh lo conferma: «Noi, ma anche molti italiani, lavoravamo in imprese di subappalto. Ora siamo fermi, non si vedono prospettive».
Persino da Riva Trigoso (La Spezia), dove pure si fabbricano navi militari, il segnale è lo stesso: «Siamo in 800, fuori del cantiere non c’è nient’altro». Il problema ha contorni chiarissimi. Fincantieri è una società controllata dallo stato e il processo di costruzione delle navi non può essere automatizzato. Vuol dire che avere una politica industriale è conditio sine qua non per programmare una produzione che il mercato, in tutto il mondo, lascia in buona parte sotto il controllo pubblico. Per esempio, i cantieri Usa hanno ricevuto di recente cospicui finanziamenti dall’amministrazione Obama, a condizione di fare almeno mille assunzioni. In Italia, invece, solo la decisa opposizione della Fiom, due anni fa, ha impedito che l’operazione «quotazione in borsa» andasse a buon fine. «Oggi non avremmo più una cantieristica», chiosa Cremaschi. Il margine di guadagno in questo settore è infatti assai basso, tale da non essere appetibile per investitori finanziari che cercano rendimenti alti nel breve periodo. «Le navi si fanno a mano», dice chi ci lavora. Non c’è infatti una catena di montaggio entro cui farle passare. Ogni cosa (dalla saldatura delle lamiere all’apparato elettrico o ai mobili) è fatto da lavoratori altamente professionali. L’unico modo di «liberarsene» è abbandonare la cantieristica. E il sospetto, ora, viene.

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