L’altra economia va salvata, anche da se stessa

La possibile chiusura (per mano di Alemanno) dell’esperienza della Città  dell’Altra Economia a Roma rappresenta un fatto gravissimo contro cui battersi ed evidenzia la pervicace volontà  della giunta capitolina di cancellare nella città  il pluralismo associativo, sociale ed economico.

La possibile chiusura (per mano di Alemanno) dell’esperienza della Città  dell’Altra Economia a Roma rappresenta un fatto gravissimo contro cui battersi ed evidenzia la pervicace volontà  della giunta capitolina di cancellare nella città  il pluralismo associativo, sociale ed economico. Il tutto a favore di un collateralismo che risponde alla sola logica della fedeltà politica. In aggiunta alle logiche più o meno clientelari, la giunta Alemanno (nonostante la passata sensibilità dell’ex ministro dell’Agricoltura al pericolo rappresentato dagli ogm o alla rilevanza dell’agricoltura biologica) sembra essere incapace di comprendere l’importanza di un investimento della città – in termini di qualità della vita, di sostenibilità, di consumi diversi, ecc – nelle economie solidali. Si preferisce invece finanziare i picnic fuori porta, le sagre di rione e i mercatini un po’ abborracciati di frutta e verdure (magari a pochi metri dalla Città dell’Altra Economia) in una logica da strapaese più che da capitale europea. Fare della sopravvivenza della Città dell’Altra Economia un punto di mobilitazione comune del mondo dei movimenti, del terzo settore e dell’altra economia diventa dunque fondamentale per difendere non solo una bella esperienza, ma il paradigma stesso di un diverso modello di sviluppo, più sostenibile e sobrio, delle nostre città. L’incarico al consorzio che gestisce la Città, scaduto il 29 settembre, è stato all’ultimo momento prorogato di due mesi in attesa della nuova assegnazione. Resta poco tempo per evitare il colpo di mano.
Eppure c’è una difficoltà nella costruzione di questa necessaria mobilitazione che pure sta dando importanti frutti: 10mila firme raccolte in 8 giorni e più di 70 organizzazioni che si sono schierate a difesa dell’esperienza. Questa difficoltà è data proprio dalle contraddizioni che sta vivendo il mondo dell’altra economia, attraversato da divisioni e gelosie, mancanza di visione politica (cioè generale), troppo adagiato (almeno in una sua parte) in logiche autoreferenziali ed elitarie e talvolta stritolato tra “business sociale” e pratiche dal basso. Queste contraddizioni sono emerse anche nella vicenda della Città dell’Altra Economia: la difficoltà di una risposta collettiva e unitaria, la disattenzione delle istituzioni e delle “centrali” della finanza etica, del commercio equo e solidale, e la mancanza di una politica comune ne sono la testimonianza. C’è il rischio che una parte del mondo dell’altra economia si incammini su una strada già vista, quella di una parte del terzo settore che nel corso del decennio passato si è istituzionalizzato o dedicato a logiche commerciali e competitive non sempre “sociali”.
Da questa difficoltà il mondo dell’altra economia ne può uscire se riporta al centro della propria esperienza la convinta scelta di fare rete (perché quasi nessuno ha interesse a costruire i Distretti di Economia Solidale?) contro ogni guscio autoreferenziale; se sviluppa la capacità di darsi comune rappresentanza e soggettività politica (cioè dandosi una visione complessiva, anche insieme agli altri movimenti); se si ostina a difendere il carattere alternativo di pratiche generatrici di identità, comportamenti concreti ed esperienze comuni. Allora sarà più forte un movimento capace di difendere i presidi di un’economia diversa e solidale. A partire dalla Città dell’Altra Economia.

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