Proprio la frammentazione dei saperi esige forti scelte di sintesi
Proprio la frammentazione dei saperi esige forti scelte di sintesi
Non riusciamo a vivere senza l’ausilio di abilità tecniche. Gli oggetti, che ci circondano e che usiamo nella semplice quotidianità, esigono saperi specialistici. Anche il nostro corpo, la nostra struttura fisio-psichica, non può farne a meno. Questi saperi e abilità si raccolgono nel concetto di competenza : che non è un conoscere statico e contemplativo, ma un possesso dinamico di nozioni e capacità pratiche. Si è competenti a far qualcosa, a produrre un bene utile all’uomo. La competenza è sempre funzionale , cioè si esercita e dispiega in vista di uno scopo. O — che è il medesimo — la competenza è fonte di prestazioni , vendute o vendibili, idonee a soddisfare bisogni.
Mentre la «formazione» dell’uomo evoca l’idea di interezza, di armonica e compiuta totalità, la competenza è sempre frazionaria e particolare . Caduta o perduta la fede in un sapere totale, restano i saperi parziali, le competenze tecniche capaci di produrre una od altra prestazione. La «specializzazione» è questo frazionarsi e moltiplicarsi dei saperi, che non si raccolgono nel vincolo di un sapere totale.
Le competenze sono destinate a moltiplicarsi in modo e numero non prevedibili. Il «progresso» delle scienze, lo «sviluppo» delle applicazioni pratiche, la varietà degli impieghi nella vita quotidiana e negli àmbiti economici: tutto sospinge verso saperi sempre più frazionari e particolari.
Non poteva non sorgere il problema dell’unità o unificazione delle competenze. Le quali, lasciate a se stesse — ciascuna rivolta a conseguire il proprio scopo, ciascuna racchiusa nel vincolo di specifici metodi e procedure — susciterebbero innumerevoli conflitti e genererebbero il caos sociale. Il determinismo economico , nelle varie forme storicamente assunte, offre una risposta al problema. O che si creda nella «necessità» di un epilogo storico e di una salvezza comune; o che si speri nella «mano invisibile», capace di indirizzare il corso delle cose; o che si veda la pluralità delle competenze confluire di per sé nell’ordine di un «piano»: sempre queste soluzioni deterministiche presuppongono un’apertura escatologica, un’attesa, che non rimarrebbe insoddisfatta o delusa.
Ma, a colui che rifiuta di nutrire aspettative sul corso inevitabile della storia, stanno dinanzi i conflitti delle competenze , il disordine dei saperi speciali e degli scopi perseguiti. Nessuna competenza detiene il criterio di soluzione del conflitto, o è autorizzata, come tale, a ergersi sopra le altre ed a farsene giudice. Le competenze sono parti in causa , e nessuna può arrogarsi la posizione di terzo e la potestà della scelta. Nessuna è in grado, nella sua conchiusa specialità, di esprimere uno scopo, capace di sottomettere a sé i molteplici scopi dei saperi, di stringerli in unità, e di segnare una direzione comune.
La discorde pluralità delle competenze esige l’atto della scelta . Ci vuol ben qualcuno che scelga, ad esempio in anni dolorosi di crisi economica, fra «rigore» e «crescita», fra una o altra soluzione fiscale, fra una o altra misura di governo. Non c’è una competenza degli atti di scelta, una competenza delle competenze , un sapere più alto governante i saperi speciali.
La decisione sta oltre le competenze . Questo «oltre» è ciò che chiamiamo «politica». La decisione sul destino della polis non appartiene ad alcuna competenza, sta fuori da ogni tecnica, ma tutte le raccoglie e dirige. Non c’è politica — come videro antichi e moderni teorici — senza unità di decisione , quell’unità che i saperi speciali, lasciati a se stessi, non sono in grado di raggiungere. La decisione, come che sia presa , tronca il conflitto e stabilisce la direzione. Non c’è bisogno di fingere una competenza generale del popolo, che si esprima nelle elezioni politiche e si affidi all’esercizio dei rappresentanti: ciò che conta è decidere, porre fine al conflitto, scegliere la strada per il futuro. Anzi, a ben vedere, nulla è più estraneo ai criteri di competenza che le procedure «elettorali» o «democratiche», le quali possono ben ricevere il nostro favore rispetto ad altre, ma, nella loro indifferenza contenutistica, mirano soltanto a produrre una qualsivoglia decisione. Le procedure non sanno ciò che vogliono, ma vogliono sempre qualcosa, ossia compiono una scelta e prendono una decisione.
Se le competenze non sono in grado di sollevarsi alla decisione, la decisione , dal suo lato, ha bisogno delle competenze . Tecnostrutture sono ormai indispensabili per qualsiasi governo (che sia d’impresa economica o di comunità nazionale). I tecnici sono al servizio della decisione, la quale, scegliendo i fini ultimi, anche determina forme e misura delle competenze esecutive. La distinzione di piani — del decidere politico e dell’eseguire tecnico — lascia emergere il principio di legalità, cioè il vincolo che stringe e definisce l’esercizio delle competenze. Posto che la decisione appartiene alla sfera politica, la quale determina i fini ultimi, la scelta tecnica dei mezzi ha da muoversi entro questo àmbito, e non discostarsene in vista di altri e diversi fini. La «legalità» della tecnostruttura esprime la subordinazione dei mezzi ai fini. L’agire tecnico rinvia a «premesse», che stanno fuori dalla competenza di chi agisce.
Un grande statista del XX secolo, Charles de Gaulle, ha così fermato questo rapporto: «È vero che se, dal gradino più alto su cui mi trovo, sta a me il sollecitare perizie, conferme e pareri, e quindi il compiere scelte e assumerne la responsabilità, non mi sostituirò comunque a tutti quelli che, ministri e funzionari, debbono studiare, proporre, dare esecuzione tenendo conto dei dati complessi tra cui vivono per abitudine e vocazione». I «governi tecnici» sono propriamente comitati di funzionari e di commissari ad acta , che talvolta rendono servigi utilissimi e sciolgono situazioni d’emergenza: ma governi ai quali non spetta la decisione sui fini ultimi.
Può accadere, e in fatto è accaduto, che, scelti i fini generali d’uno Stato o di altra comunità, la politica, per così dire, si ritragga dalla scena, o perda prestigio per debolezza di idee e corruzione di uomini. Allora i tecnici, chiamati in funzione di commissari esecutivi, allargano il loro potere e, sotto schermo di interpretare e applicare la volontà politica (quale, ad esempio, sia fissata in accordi e trattati internazionali), si sporgono sul terreno della decisione e riempiono le norme di nuovi e devianti contenuti. In questo quadro si collocano i fenomeni, spesso segnalati e denunciati, di «euro-tecnocrazia». Dove, se colpe vi sono, la politica non può che imputarle a se stessa.
Con inquieta consapevolezza si è usata la metafora del «salire in politica», poiché il tecnico, che voglia decidere o concorrere a decidere circa il governo della città, esce fuori dalla propria competenza, e, fattosi politico fra i politici, corre l’incognita del vincere o del soccombere. Quel «salire in politica» anche spiega l’intrinseca contraddizione di ogni pretesa tecnocratica, ossia di ogni pretesa dei tecnici di elevare a fini ultimi i fini della propria competenza. In ciò fare, il tecnico, detentore di specifica e definita competenza, cessa di esser tecnico, e «sale» al terreno delle fedi e religioni e ideologie politiche, le quali non appartengono ad alcuna competenza, e attendono risposta dall’esito del conflitto.
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