? Togliatti, Gastone e Secchia a Novara, nel maggio 1945. Foto tratta da «Storia fotografica del Partito comunista italiano»
Una storia italiana. «Ferreo organizzatore», il rivoluzionario che voleva l’insurrezione, il combattente che che si è scagliato contro il supposto tradimento della Resistenza . È uno dei giudizi che hanno accompagnato la figura di Pietro Secchia. «Le rivoluzioni non cadono dal cielo», il volume di Marco Albeltaro recentemente pubblicato da Laterza consente invece di ricostruire con rigore il percorso del leader comunista al di là dell’aura di dirigente ostile ai “cedimenti” del Pci che ha accompagnato la sua vita politica
? Togliatti, Gastone e Secchia a Novara, nel maggio 1945. Foto tratta da «Storia fotografica del Partito comunista italiano»
Una storia italiana. «Ferreo organizzatore», il rivoluzionario che voleva l’insurrezione, il combattente che che si è scagliato contro il supposto tradimento della Resistenza . È uno dei giudizi che hanno accompagnato la figura di Pietro Secchia. «Le rivoluzioni non cadono dal cielo», il volume di Marco Albeltaro recentemente pubblicato da Laterza consente invece di ricostruire con rigore il percorso del leader comunista al di là dell’aura di dirigente ostile ai “cedimenti” del Pci che ha accompagnato la sua vita politica
Ci sono, nella storia del movimento operaio, miti che si formano spontaneamente, altri che vengono alimentati, altri ancora che prendono strade diverse da quelle imboccate in partenza. Il caso di Pietro Secchia riassume in sé tutte queste caratteristiche, e invita a ripensarne natura e consistenza la biografia appena pubblicata da Marco Albeltaro(Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte, Laterza, pp. 235, euro 22).
La difficoltà maggiore che si incontra nel districarsi tra storia e mito, nel caso specifico, è dovuta al fatto che, come avverte l’autore fin dalla prima pagina, Secchia curò in prima persona la «costruzione della propria mitologia», per tutto il ventennio di emarginazione progressiva dal centro decisionale della politica comunista. Gran parte delle sue memorie sono di carattere autogiustificativo e di rivendicazione risentita del suo ruolo, ma anche nel farsi storico, e non irrilevante, di comunismo e Resistenza, l’esigenza di costruire e precisare una propria immagine giocò un ruolo di indubbio rilievo.
Dall’esterno, poi, molti tratti specifici del comunismo di Secchia verranno esasperati e travisati, come accade spesso nelle mitologie che si autonomizzano e sfuggono al controllo dell’ideatore. Ma procediamo con ordine.
È lecito chiedersi preliminarmente come l’autore di un celebre articolo sull’Unità del 1943 dedicato alla condanna del «sinistrismo maschera della Gestapo» abbia finito per divenire icona proprio di un «sinistrismo» diffuso, che si irradiava, subito dopo la morte del personaggio, ben al di là delle catacombe dello stalinismo italiano.
L’insurrezione sognata
La ricostruzione di questo processo nell’immaginario di parte della sinistra non è facile, e del resto non è neppure il compito che l’autore si prefigge, nel proporre una biografia ragionata di un importante dirigente comunista. Certamente gioca un ruolo importante l’immagine prevalente che di Secchia si afferma subito dopo la sua scomparsa. Se è vero che Secchia non può essere interpretato riduttivamente comeL’uomo che sognava la lotta armata (che era il titolo di una vivace biografia pubblicata nel 1984 da Miriam Mafai), non c’è dubbio però che una gran parte del suo mito dipenda da questa caratterizzazione. L’elemento militare del resto è presente fin dall’inizio nella sua formazione di comunista, ed è significativo che del primo incontro in un congresso socialista a Biella con Gramsci resti nella sua memoria solo l’accusa alla Fiom di non avere armato gli operai.
In realtà Secchia fu uno dei più attivi e motivati giovani che aderirono al nuovo partito comunista, e assieme a Luigi Longo fu dirigente di spicco della Federazione giovanile (su quest’ultimo si veda ora il libro appena uscito di Alexander Höbel,Luigi Longo, una vita partigiana (1900–1945), prefazione di Aldo Agosti, Carocci 2014, primo volume di un’opera della quale sarà molto utile tirare le fila quando giungerà a compimento). I «giovani» portavano nel PCd’I una velata critica all’impianto delle Tesi di Lione, e la ripresa larvata di elementi del bordighismo nel quale si erano formati. La «svolta» della III Internazionale in direzione di un inasprimento della lotta contro le socialdemocrazie, con la previsione di una situazione a breve insurrezionale, vide premiate le loro istanze, ed essi saranno i protagonisti della ripresa di una diffusa attività clandestina nell’Italia fascista. Una scelta disastrosa sul piano degli esiti (cattura di gran parte dei dirigenti inviati nella penisola) e basata su un’analisi ingenua della fase che si apriva, ma sempre rivendicata a posteriori dai protagonisti (non solo Secchia, ma anche Amendola) come errore «provvidenziale» che aveva riportato l’organizzazione clandestina del PCd’I in Italia, ponendo le basi per la futura esplosione di massa nella Resistenza. Ci sarebbe molto da discutere su questo, e molto si è discusso. Limitiamoci qui a rilevare che Secchia in questo frangente rivelò le sue doti di «ferreo organizzatore» (che avrebbe confermato nel ’43-’45), e maturò nell’etica e nel costume di un «rivoluzionario di professione», figura importante e centrale della politica novecentesca. Il titolo scelto dall’autore, sulle «rivoluzioni che non cadono dal cielo», riproduce il pensiero effettivo di un organizzatore che diffidò sempre del mito della «spontaneità», anche in polemica con altre correnti rivoluzionarie.
La cattura da parte dei fascisti gli procurò un lungo periodo di prigionia, dall’aprile del 1931 all’agosto del 1943, e gli impedì di prender parte all’esperienza dei Fronti Popolari e della guerra civile spagnola, nelle quali maturò la statura di Longo come grande dirigente. Furono per Secchia anni di studio, di Clausewitz e di altri classici del pensiero militare, di aggiornamento sugli sviluppi della politica sovietica, di intransigenza nei confronti dei confinati non convinti di quelle scelte, come ad esempio Terracini.
Inviato a Nord dopo la scarcerazione, ebbe un ruolo fondamentale sul piano politico e soprattutto organizzativo nel partito, e qui contribuì a «incanalare» la spontaneità di fondo di gran parte del movimento resistenziale nella struttura politica comunista. Come tutto il partito del Nord accolse con favore la svolta di Salerno che consentiva di concentrare tutte le energie nella lotta contro i tedeschi; le differenze rispetto alla politica togliattiana riguardavano il ruolo politico e volto al futuro attribuito ai Cln rispetto all’impianto costituzionale fondato sulla democrazia parlamentare che il partito del Sud stava realizzando.
La fragorosa caduta
Un serio elemento di dissenso si manifesta nel dicembre 1947, quando inviato a Mosca presenta a Stalin una relazione fortemente critica contro la politica eccessivamente «legalitaria» attribuita a Togliatti. Non viene incoraggiato da Stalin in una possibile avventura insurrezionale, che entrambi escludono, ma a dire di Secchia rimase l’«ottima impressione» fatta a Stalin. Di fatto viene, a torto o a ragione, identificato da molti come l’uomo di fiducia dei sovietici, sensazione che si rafforza quando viene improvvisamente nominato vicesegretario del Pci nel febbraio 1948, a congresso ormai da tempo concluso e affiancato a Longo che già ricopriva quella carica.
Secchia non verrà emarginato dalla destalinizzazione, come accadrà a molti dirigenti della «vecchia guardia», ma la sua caduta fragorosa avvenne prima, il 25 luglio del 1954, a causa di una vicenda che continua ad apparire clamorosa nelle sue implicazioni. Il suo più stretto collaboratore, Giulio Seniga, scompare portando via una somma enorme di denaro rastrellato da gran parte dei depositi cui aveva accesso e molti documenti riservati. Le motivazioni che verranno date di questo gesto oscillano tra la volontà di dare una spinta a un Secchia riluttante a mettersi alla testa di una corrente «rivoluzionaria» che desse battaglia all’interno del partito contro i «cedimenti» opportunistici o di creare un fatto compiuto che costringesse Secchia a uscire dal partito e creare un proprio movimento. Era in ogni caso un «piano assurdo, ingenuo e cretino», come commenta Secchia nei suoi diari retrospettivi, ma lascia intendere il clima che si respirava nella cerchia più intima di chi gestiva l’organizzazione del partito. Albeltaro glissa opportunamente sulla tematica dell’omosessualità, che pure fu tirata in ballo, anche se rileva molte stranezze nei diari di Secchia sulla sfera della sessualità. Certo molti si chiesero come mai un uomo così cauto e avveduto avesse conferito tanto potere a un uomo dalla milizia comunista relativamente recente.
A partire di qui Secchia subì una progressiva emarginazione, anche se mai completa: fu vicepresidente del Senato, delegato a molti congressi internazionali, ma senza avere più voce in capitolo negli organismi in cui si decideva la linea politica comunista. Negli anni successivi si dedicò soprattutto alla storia della Resistenza e del partito comunista, lasciando contributi di rilievo pur se intrecciati a un inevitabile autobiografismo (caratteristica che fu propria di tutti i dirigenti di quel partito fattisi storici).
La vera discussione che si apre o si riapre a distanza di tanti anni verte essenzialmente attorno a un’unica questione: fu quella di Secchia una linea alternativa al togliattismo? Anche Albeltaro, come tutti gli storici che si sono posti il quesito, a partire da Enzo Collotti che curò la pubblicazione dell’Archivio Secchia, tende a negarlo: fu piuttosto una divaricazione all’interno di una linea comune. Era la posizione dello stesso Secchia, del resto.
La difesa della resistenza
Nelle sue carte negò sempre di avere in alcun modo adombrato l’idea di una conquista armata del potere durante la Resistenza. E in effetti quando Secchia parla di «Resistenza tradita», che è il tema del suo intervento parlamentare più rilevante pronunciato al Senato nell’ottobre 1949, fa sempre riferimento ai partigiani incriminati in parallelo coi fascisti amnistiati, alla restaurazione di personale e di metodi dello Stato fascista intervenuti dopo la rottura della collaborazione governativa nel 1947. Anche quello dell’operaismo (qui inteso nel significato un po’ grigio e corporativo che il termine aveva prima di venire completamente reinventato da intellettuali negli anni Sessanta) è un mito posticcio che a Secchia viene sovrapposto, laddove, come documenta Albeltaro, nei suoi interventi aveva al contrario sempre lamentato l’incapacità di aperture al «ceto medio» che rimproverava al partito.
La sua concezione del partito formalmente non si discostava molto da quella di Togliatti, che per primo aveva parlato, nel 1947, di un partito di massa che doveva diventare anche partito di quadri, anche se la visione di un «partito di quadri di massa», che Secchia sembrava adombrare, pareva fuori dal novero delle possibilità.
E indubbiamente Pietro Secchia non fu mai un eretico, ma un dirigente che rientrava in pieno nel mainstream del comunismo europeo: tra i comunisti francesi, greci o portoghesi le sue posizioni sarebbero apparse consuetudinarie, e lo furono a lungo anche in quello italiano, fino a quando non entrarono in conflitto con l’anomalia rappresentata dall’impronta autonoma e originale che Togliatti cercava di imprimere alla costruzione di una via italiana al socialismo che non fosse la semplice rimasticatura, con poche varianti, di vecchi catechismi bolscevichi.
È solo intrecciando le posizioni ufficiali con quelle dei diari che si comprende il solco che si stava scavando tra Secchia e Togliatti, nel rifiuto delle posizioni più originali e innovative che il Pci andava assumendo: dal discorso sul destino dell’uomo di fronte alla pace e alla guerra e sul pontificato di Giovanni XXIII rubricato come semplice «sviolinatura clericale», alle ricorrenti e ripetitive accuse di cedimento socialdemocratico riservate a Togliatti e poi a Longo, in note che all’autore paiono dettate più da «risentimento» che da elaborazione alternativa: l’espressione «spingere al massimo» che ricorre in Secchia fa intendere la disposizione ad agire con maggiore radicalità ma senza mai andare oltre confini ben definiti che non vanno comunque varcati.
Le delusioni storiche
Negli ultimi anni Secchia fu colpito dal movimento studentesco, nel quale ravvisò somiglianze col ribellismo della propria generazione, ma che interpretò sempre facendolo rientrare nei canoni rigidi della sua formazione teorica. Istituì un legame con Feltrinelli, che si tradusse nella cura di Annali e nel libro sulla Guerriglia in Italia (1969) che probabilmente influì moltissimo sul mito postumo. Viaggiò molto, per documentarsi sulle crisi rivoluzionarie che si erano aperte nel mondo, e nel suo ultimo viaggio in Cile contrasse una misteriosa intossicazione che dopo qualche mese lo condusse alla morte il 7 luglio del 1973. Si parlò di avvelenamento da parte della Cia, senza alcun elemento di plausibilità, ma anche questo entrò a far parte dell’alone mitico che circondò a lungo la sua figura.
Un’ultima considerazione. Probabilmente non è mai esistito il tanto discusso«gramsciazionismo», in quanto l’ispirazione gobettiana riassumeva in sé anche gran parte delle suggestioni del giovane Gramsci, mentre il Gramsci maturo era incompatibile con i presupposti della forma mentis azionista. Certamente è esistito però negli anni Settanta un «secchiazionismo», che era la confluenza di due delusioni storiche, e nel quale si intrecciavano antichi e giovani mugugni sulla svolta di Salerno, il mito della Resistenza quale rivoluzione tradita, la sfiducia nella Costituzione repubblicana valutata quale compromesso deteriore, ammiccamenti alla lotta armata e avversione verso le forme della mediazione politica e sindacale. Una parte cospicua della produzione parastorica di quegli anni riflette l’influenza di questo confuso amalgama. Di tutto questo Secchia non è ovviamente responsabile, e la riflessione storica finalmente avviata sulla sua personalità serve anche a depotenziare o circoscrivere nei suoi giusti limiti una mitologia dalla fragile consistenza.
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