Critica e pubblico La nuova alleanza

Per sottrarsi alla dittatura del marketing

 Interrogarsi ancora sul senso della critica può sembrare ai limiti dell’autolesionismo, visto che ogni gerarchia è caduta definitivamente.

Per sottrarsi alla dittatura del marketing

 Interrogarsi ancora sul senso della critica può sembrare ai limiti dell’autolesionismo, visto che ogni gerarchia è caduta definitivamente.

E la frase semi-seria di Truffaut secondo cui «tutti hanno due mestieri, il proprio e quello di critico cinematografico» si è trasformata con gli anni in una specie di maledizione: invece di stimolare in ognuno il «lavoro del critico» (cioè le capacità di ragionare sui valori o sui disvalori di un qualsiasi prodotto) ha finito per giustificare il peggior soggettivismo, dove spesso chi si fa sentire è solo chi ha la voce più forte. O il blog più alla moda. E nella versione 2.0 della notte schellinghiana, dove tutto è uguale a tutto, ecco che la critica perde ogni valore.
Potrebbe essere una conquista. Forse.
Eppure, le persone che hanno riempito la Sala Melato del Piccolo, qualche giorno fa, per ascoltare lo scambio di opinioni tra Ronconi e Cordelli, erano lì a dimostrare che di critica se ne sente ancora il bisogno. Proprio come ricordava Martin Scorsese sulla «New York Review of Books» dell’agosto scorso, quando sosteneva che «i giovani devono capire che non tutte le immagini sono fatte per essere consumate come un dolce e poi dimenticate». E che bisogna insegnare a distinguere «quelle che hanno qualcosa da dire al cuore e all’intelligenza da quelle che si limitano a voler vendere qualcosa». Praticamente lo stesso discorso che faceva Cordelli durante il dibattito organizzato da «la Lettura», quando lamentava l’eccesso di spettacoli (cioè di prodotti pensati solo per vendere) se paragonato alla scarsità di idee.
Certo, dedurre in questo modo la necessità della critica può essere un esercizio azzardato. Ma può aiutare a ribadirne l’utilità. Soprattutto se si tiene in considerazione il terzo invitato al tavolo dove siedono autori e critici. E cioè il pubblico. È da lui, dalle sue esigenze e aspettative che dovrebbe ripartire il discorso, perché solo così si può far piazza pulita in un colpo solo di quella marea di narcisismi che la proliferazione degli spazi e delle occasioni ha inevitabilmente prodotto.
Per chi si scrive? Ecco la domanda cui bisognerebbe saper rispondere sempre. Se lo faccio per me stesso, per affermare le mie ambizioni di scrittura, allora un bel «chissenefrega» basta a chiudere la discussione. La critica non è un surrogato della velleità letteraria, della voglia di scrivere. Per quella ci sono altri spazi e altri percorsi. Certo, anche la critica deve avere un suo stile, una sua scrittura riconoscibile, ma sempre subordinata a entrare in relazione col suo destinatario. E possibilmente senza dover far ricorso a un traduttore simul-taneo, ma tenendo sempre ben a mente che non tutti i pubblici sono uguali, hanno la stessa cultura, le stesse conoscenze e le stesse aspettative.
Un’affermazione, questa, che si capisce meglio quando si tiene presente la seconda fondamentale domanda del lavoro critico: perché si scrive? Non voglio scivolare nel patetico, ma penso che il bravo critico sia mosso soprattutto da una specie di missione pedagogica. L’intima convinzione che il suo compito è quello di aiutare il lavoro culturale a difendere la propria necessità. Per questo penso che il critico non dovrebbe mai essere un giudice che assolve o condanna, così come penso che non siano più i tempi in cui un critico doveva trasformarsi in un avvocato per difendere un autore di fronte all’incomprensione del pubblico. Oggi di incompresi non ce ne sono praticamente più e il rischio è casomai l’opposto, di essere compresi troppo. Per questo il critico dovrebbe assomigliare a un bravo maestro, capace di trasmettere ai suoi lettori gli strumenti che servono per capire quello che sta vedendo (o leggendo o sentendo). Per aiutarlo a orientarsi in un mondo dove si fa fatica a distinguere — per usare le parole di Scorsese — tra chi vuole solo vendere qualcosa e chi vuole parlare alla nostra intelligenza. Tra marketing e cultura, tra superficialità e necessità. Per aiutare il critico che c’è in ognuno ad affinare meglio i suoi strumenti ed esprimere un’opinione personale motivata e pertinente.
Perché non è detto che si debba sempre andare d’accordo col critico, ma aver ancora voglia di confrontarsi con qualcuno a cui si riconosce credibilità è il modo migliore per spiegare a chi non lo vuol capire perché la critica è importante: perché è con l’autorevolezza che deriva dalla sua credibilità (e da nient’altro) che il critico aiuta gli spettatori (e i lettori e gli ascoltatori) a essere un po’ migliori, cioè più attenti, più informati e — perché no — più esigenti.

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