Confisca, l’arma più potente nelle mani dell’Inquisizione

Ma poteva capitare che il Sant’Officio aiutasse gli ebrei
Ma poteva capitare che il Sant’Officio aiutasse gli ebrei

Per capire il modo in cui sono andate davvero le cose bisogna osservare come si sono mossi i soldi. Un principio che, secondo Germano Maifreda, ben si applica all’Inquisizione, una storia sviluppatasi per due secoli e mezzo: dalla nascita della Congregazione del Sant’Officio (1542) alla fine del Settecento. E che ora fa da spina dorsale al libro originale e intelligente di Maifreda, I denari dell’inquisitore. Affari e giustizia di fede nell’Italia moderna , che esce oggi per Einaudi. Quante persone sono state coinvolte in questo non breve percorso? Andrea Del Col, ne L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo (Mondadori), ha stimato che i processi di cui qui stiamo parlando furono tra i 50 e i 75 mila. E gli imputati tra i 200 e i 300 mila. Le loro storie, se ben passate al setaccio, ci svelano aspetti inediti (o, comunque, fin qui mai analizzati in sé) dell’entrata di Chiesa ed Europa nella modernità. Tanto più che, come scrive Maifreda, le confische e le altre pene pecuniarie furono, per gli inquisitori, «ben più che una fonte di denaro». Anzitutto «esse costituirono un agile strumento di amplificazione del potere della giustizia di fede, la quale, deprivando persone di tutti i ceti sociali delle proprie sostanze e spezzando la trasmissione ereditaria di casate di grande prestigio e visibilità, sanciva tangibilmente la propria supremazia su alcune delle più antiche e prestigiose istituzioni sociali dell’Antico Regime: la persistenza del cognome, la conservazione unitaria e la trasmissione intatta del patrimonio alle generazioni successive». Oltre tutto la «confisca dava agli inquisitori l’opportunità di procurarsi informazioni non emerse nell’ambito del processo già concluso e aprire, così, nuove procedure offensive».
Le pene pecuniarie costituirono, dunque, «un cruciale strumento di alleanza e di dialogo — anche, ma non solo, nei termini della contesa — fra tribunali ecclesiastici e autorità secolari», che si occupavano materialmente dell’incameramento dei beni. Chiusa la fase del processo inquisitoriale, condotto da autorità ecclesiastiche sotto un manto di segretezza difficilmente penetrabile, la giustizia di fede, al momento della confisca, «si schiudeva alla piena visibilità sociale e dialogava compiutamente con le autorità secolari, sviluppando un linguaggio politico e un progetto repressivo comuni». Laddove si comprende che tutto ciò rappresentò per il Sant’Officio non solo una rilevante fonte di entrata, ma anche (e soprattutto) un’occasione di negoziazione politica con i governi locali. Il tutto in un’epoca assai particolare. L’epoca in cui nacque la Congregazione del Sant’Officio e in cui si consolidò la gestione economica della sua rete territoriale, scrive Maifreda, «fu la stessa che vide — a fronte di una demografia in crescita, dell’aumento dei consumi e dei prezzi e di un’espansione dei commerci infra e interregionali, non accompagnata da un adeguamento dell’offerta di credito bancario in senso proprio — un crescente numero di persone e istituzioni familiarizzarsi con tecniche finanziarie anche sofisticate e procedere a concessioni di denaro a prestito». Si stabilì in tal modo «un tessuto connettivo di crediti minuti e diffusi, che funzionava in base a meccanismi sociali di fidelizzazione reciproca e di circolazione di informazioni e garanzie reputazionali fra prestatori e debitori… Meccanismi entro cui la detenzione di una pubblica fama di ortodossia religiosa giocava sicuramente un ruolo determinante».
La preistoria dell’Inquisizione ha inizio da un momento indeterminato, tra la fine del XII e la metà del XIII secolo, quando si formò una struttura sovrannazionale di governo ecclesiastico. È la conseguenza dell’opera di due papi: Gregorio VII (1073-1085) e, soprattutto, Innocenzo III (1198-1216). Pontefici che sancirono non solo la superiorità del vescovo di Roma sull’imperatore in tema di nomina e deposizione dei principi e dei vescovi feudatari, ma anche il potere di governare gerarchicamente tutta la cristianità occidentale. La struttura inquisitoriale della Chiesa agli inizi del secondo millennio operava in modi rudimentali, per delega diretta del Papa e grazie ai membri dei nuovi ordini mendicanti: domenicano e francescano. Le aree di influenza di questi agenti, che si dedicavano a combattere le eresie, furono prevalentemente la penisola italiana, la Francia del sud e l’Aragona. In terra franco-tedesca le potenti Chiese episcopali fecero da sé. Fin dal Medioevo i giudici di fede inflissero ai loro condannati pene pecuniarie, talvolta in cambio dell’attenuazione di castighi fisici o spirituali. E si segnalarono quasi subito casi di malversazione.
A mettere ordine in questa complicata situazione provvide la creazione delle tre Inquisizioni mediterranee: la spagnola (1478), la portoghese (1536) e, ultima, quella romana (1542). Le prime due nacquero, secondo l’autore, come «frutto di una connessione istituzionale tra giurisdizione ecclesiastica e potere statale». E fu proprio la natura di tribunale ecclesiastico controllato dallo Stato, sostiene Maifreda, «a farne uno strumento repressivo di grande duttilità e potenza, in grado di superare le norme canoniche medievali per procedere con la notoria durezza e con grande libertà d’azione». Tutti gli ufficiali dell’Inquisizione spagnola avevano il rango di ministri del re e come tali erano pagati dal sovrano. I pontefici si riservavano un forte potere di intervento, finché entrarono con loro in aperto conflitto. Urto che portò alla decisione di Leone X, nel 1520, di imporre le dimissioni di massa di tutti i suoi ufficiali, con l’unica eccezione dell’inquisitore generale Adriano di Utrecht. E allo smantellamento dell’intera struttura spagnola. Anche stavolta al Papa si poneva il problema di reagire ad accuse di malversazioni che venivano dal reggente di Castiglia, Francisco Jiménez Cisneros, il quale aveva rimproverato agli inquisitori di essersi dedicati a «vender la fe’ catolica». Ma non fu soltanto per ovviare a questo genere di problemi (i quali, anzi, si sarebbero riproposti) che Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, nel 1542 — più o meno all’epoca in cui convocò il Concilio di Trento — creò quella che presto avrebbe preso il nome di Congregazione del Sant’Officio. A fargli prendere la decisione di compiere questo passo era stato il governatore della Milano spagnola, il marchese del Vasto che, considerando insufficiente l’impegno dell’inquisitore locale nel combattere la diffusione delle dottrine protestanti, invocò un intervento della Curia romana.
Paolo III, nel concistoro del 15 luglio 1541, assegnò ai cardinali Gian Pietro Carafa de Girolamo Aleandro «la cura universale della Inquisitione», concedendo loro «i poteri di nominare liberamente, inviare e coordinare l’azione di nuovi giudici di fede in tutta la cristianità». Il disegno di Paolo III e ancor più quello dei suoi successori (Carafa in primo luogo, che, in segno di continuità con il Farnese, prese il nome di Paolo IV), era quello di fronteggiare l’eresia luterana, restituendo alla Chiesa di Roma una centralità indiscussa. Centralità che determinò una rivoluzione economica. La redistribuzione delle risorse che, tra Cinque e Seicento, i pontefici attuarono a vantaggio dell’Inquisizione e a danno delle diocesi costituì, secondo Maifreda, « un momento importante e fino a ora poco indagato del rafforzamento del centralismo romano». È la tesi già sostenuta da Rudolf Lill ne Il potere dei papi dall’età moderna a oggi (Laterza). Dopo il Concilio di Trento si pose il problema di far capire quanto contasse davvero il Papa. Tutto quel che avvenne in seguito, scrive Maifreda, faceva parte di «una strategia volta a riequilibrare i poteri che il Concilio aveva conferito ai vescovi, affiancando loro i membri degli ordini vecchi e nuovi, ritenuti meno condizionabili dalle pressioni dei ceti aristocratici e dai potentati locali».
Ma con il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-1559) si ha anche un fondamentale momento di discontinuità nella storia dell’Inquisizione moderna. Tutto era iniziato a Bergamo, dove dal 1550 frate Michele Ghisleri (futuro papa Pio V) aveva indagato in segreto sull’ortodossia del vescovo Vittore Soranzo, subendone un’aggressione armata che lo costrinse addirittura a fuggire a cavallo dal convento. Non prima però che avesse messo in salvo l’incartamento processuale contro l’ordinario. Dopo che Soranzo nel 1554 ebbe la meglio, la diocesi fu di fatto commissariata dal Sant’Officio e questo non fu che il caso più eclatante del conflitto, incoraggiato da numerosi papi, tra inquisitori e vescovi. Di qui inizia un fenomeno che si protrarrà a lungo e sarà detto della «renitenza vescovile». Nel 1594 il vescovo di Vercelli fece addirittura sequestrare le entrate beneficiarie dell’Inquisizione locale. Conflitti del genere si ebbero poi lungo il corso di tutto il Seicento: a Rovigo, Gubbio, Imola.
Lo storico poi si sofferma sulla confisca, da intendersi come una forma di «cancellazione del passato». Confisca che, quando nel 1542 nacque l’Inquisizione romana, aveva alle spalle una storia millenaria che affondava le proprie radici nel diritto di Roma antica. Pochi, scrive Maifreda, «oggi ricordano che l’istituto giuridico della confisca dei beni dei condannati, che riguarda soprattutto chi riceva la pena di morte, praticato fin dall’epoca romana e poi per tutto il Medioevo e l’età moderna, fu al centro di un acceso dibattito nell’età dei Lumi, principalmente per le implicazioni morali e filosofiche che gli erano intrinseche». Mise ben a fuoco il tema Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene (1764). Osservò, Beccaria, che confiscare i beni legittimamente accumulati da un individuo equivaleva a estenderne la pena ai collaterali e discendenti, sebbene fossero giuridicamente innocenti: «Ciò, oltre che moralmente ingiusto… rappresenta una condanna a morte di fatto, con il troncamento di ogni suo legame con il consorzio civile, e la cancellazione non solo del suo presente e del suo futuro, ma anche del suo passato». La confisca «turbava in misura irreparabile gli assetti sociali e fiduciari che spingevano gli attori a stipulare dei contratti — compravendite, prestiti, affittanze, lasciti e quant’altro — contando sulla continuità della garanzia dei diritti di proprietà e dei legami informali». Sicché i circuiti economici animati in Italia da mercanti provenienti da aree europee a preminenza religiosa riformata, o da colleghi peninsulari che periodicamente soggiornavano o avevano dimorato a lungo in tali aree fino a quando ciò fu consentito — vale a dire la fine del Cinquecento — vedevano, in questo quadro, il più alto rischio che i loro protagonisti rimanessero impigliati nelle maglie dell’Inquisizione romana. Ciò che creava sui mercati italiani un clima di incertezza generalizzato anche se, ammette Maifreda, è impossibile dire in che misura tutto questo avvenisse.
In ogni caso, però, con la confisca l’Inquisizione si diffondeva nella società «moltiplicando le dignità, gli uffici e i soggetti che con essa collaboravano e, in ultima istanza, la sua visibilità e la sua forza». Donne e uomini «che mai si sarebbero inoltrati volontariamente nei meandri delle procedure d’Inquisizione furono mobilitati da autorità pubbliche e religiose, le quali convocandoli, interrogandoli, nominandoli forzatamente loro rappresentanti, intaccandone direttamente o indirettamente i diritti patrimoniali, li precipitarono nel gorgo della repressione del dissenso religioso». Essi furono così trasformati in «testimonianze viventi, in mano ai tribunali confessionali, del potere superiore» di «disarticolare alcuni fondamenti morali del sistema sociale, tra cui la certezza dei diritti di proprietà, la perpetuazione del sistema successorio e il legame tra unitarietà patrimoniale e identità familiare, che una grave condanna poteva spezzare per sempre»
Ma la situazione che si venne a creare nel mondo che ebbe al centro l’Inquisizione è ancora più complicata. Valga per far comprendere la portata dell’intreccio una vicenda della seconda metà del Cinquecento. L’autore ricorda il caso di un inquisitore di Milano il quale, nel corso di una confisca, scoprì che l’eretico Bernardino Appiani di Pallanza — medico studioso di teologia e scienze occulte fuggito dal carcere nel 1571 e successivamente arso in effigie — vantava un credito di quasi duemila scudi d’oro nei confronti del conte Giorgio Costa della Trinità, capitano generale della tragica spedizione militare voluta nel 1560 da Emanuele Filiberto di Savoia contro le valli valdesi. Il grande dissidente si scopriva così essere stato finanziatore di una crociata contro gli eretici.
Gli inquisitori romani di età moderna, scrive Maifreda, «non furono, come potrebbe lasciar intendere una letteratura storiografica tutta schiacciata sulla dimensione processuale, oscuri teologi claustrali, periodicamente affioranti da buie aule conventuali per castigare crudelmente delitti di fede e tornare, subito dopo, a una vita di erudizione e contemplazione, in attesa di perseguire una nuova vittima». Essi furono invece «costantemente immersi in un fluire vitale di relazioni politiche e sociali, nello sforzo di gestire attività economiche la cui cura richiedeva un impegno prosaico, puntuale e continuo». Gradualmente, «gli inquisitori impararono a trasformarsi in amministratori di patrimoni accumulati dai loro predecessori tramite confische, multe, compravendite, prestiti di denaro, lasciti ereditari e diverse altre forme di investimento». E in ciò «manifestarono una vitalità che, seppur entro i limiti e la vigilanza stabilita da Roma, li avvicinò a possidenti privati e li fece entrare entro segmenti rilevanti dei circuiti commerciali e creditizi dell’Antico Regime». Le principali sedi peninsulari del Sant’Officio manifestarono, lungo tutta la loro storia, una intraprendenza finanziaria e patrimoniale «per certi aspetti sorprendente». Per gli inquisitori, che così attentamente amministravano il patrimonio dei tribunali locali, rappresentare l’Inquisizione poteva costituire un significativo vantaggio sul «mercato» del credito, degli immobili e dei contratti agrari.
Ma ci fu anche dell’altro. All’inizio del Seicento si ebbero alcune situazioni che testimoniano un’evidente «sovrapposizione fra giurisdizione inquisitoriale, intrecci politici e interessi materiali». Ranuccio Farnese, duca di Parma e Piacenza, istruì e condusse personalmente un imponente processo per stregoneria dopo aver ottenuto da diversi nobili locali la «confessione» di aver preso parte ad una fantasiosa congiura contro alcuni sovrani della penisola, 18 cardinali e lo stesso Papa. Processo che si concluse nel maggio del 1612 con la decapitazione e l’impiccagione di dieci persone nella piazza principale di Parma, nel corso di una lugubre cerimonia che durò oltre tre ore. In agosto poi furono impiccati due prelati. Successivamente il Farnese si impadronì di terre e beni dei condannati a morte. Qualcosa di analogo — anche se di segno diverso — accadde nella Torino dei Savoia. Qui, nel 1634, una «posseduta», la nobile decaduta Margherita Roera, esorcizzata da un frate domenicano, accusò il plenipotenziario ducale Lelio Cauda di aver ammaliato Vittorio Amedeo I. Venne inscenata anche una finta possessione. Ma fu subito evidente il tentativo dell’inquisitore, Girolamo Robiolo, di screditare Cauda per mandare in frantumi il suo sistema di potere. Vittorio Amedeo reagì e riuscì a ottenere l’arresto dell’inquisitore da parte del provinciale domenicano. E dal Sant’Officio venne una condanna esemplare di coloro che avevano partecipato al complotto.
Contemporaneamente, in epoca «immediatamente successiva alla chiusura della fase più acuta della repressione antiluterana» si ebbe, poi, quella che può essere definita una «specializzazione antiebraica» dei tribunali inquisitoriali. Siamo qui, ha scritto Adriano Prosperi «nel cuore dell’antiebraismo cattolico, cioè di quella lunga guerra di posizione condotta dal cattolicesimo nei confronti di una presenza tollerata ma certamente non amata». «Specializzazione antiebraica» o forse «specializzazione ebraica» (tema ben approfondito in alcuni studi da Marina Caffiero), che diede una forte caratterizzazione al Sant’Officio. Quantomeno fino al 1769, quando papa Clemente XIV trasferì dall’Inquisizione, che la deteneva dal 1581, al vicariato di Roma, la giurisdizione su tutte le cause non religiose o commerciali in cui fosse implicata la locale comunità israelitica. Ma, attenzione, le cose andarono in modo diverso da come le si è percepite. Colpiscono i numerosi casi in cui il Sant’Officio romano nel Sei e nel Settecento, fu capace di respingere le cause intentate dai negozianti cristiani i quali, per difendere i loro monopoli sui mercati cittadini, inventavano ogni genere di accuse contro i concorrenti israeliti. Marina Caffiero e Angela Groppi hanno individuato molti casi in cui il Sant’Officio «si fece garante degli ebrei» nei confronti dei gentili che miravano a limitarne la presenza fuori dai ghetti, «minacciando o rompendo monopoli commerciali di cui i cristiani godevano da secoli». C’erano stati, è vero, episodi terribili come quello dei roghi degli ebrei anconetani di metà Cinquecento, in cui anche l’Inquisizione ebbe una parte non di secondo piano. Orrori finalizzati ad appropriarsi dei beni degli ebrei. Ma, afferma lo storico, «allo stato attuale degli studi non pare tuttavia possibile scorgere entro il sistema dei tribunali centrale e locali italiani di metà e secondo XVI secolo una sistematica opera di incameramento dei beni di persone coinvolte in processi inquisitoriali, né un’integrazione fra procedura di fede ordinaria e indagini patrimoniali paragonabili a quelle evidenziate dagli studi inerenti il caso spagnolo».
E restiamo nelle Marche. Nell’agosto del 1624 l’inquisitore di Ancona ricevette una richiesta d’aiuto da parte della comunità ebraica locale, che si riteneva molestata dal neofito Giovan Giorgio Aldobrandino. È interessante notare come gli ebrei preferissero rivolgersi all’Inquisizione piuttosto che al vescovo. Ritenevano evidentemente che il tribunale del Sant’Officio «fornisse loro maggiori garanzie di correttezza procedurale rispetto all’asserita rapacità di quello vescovile». E infatti l’autorità diede loro ragione. Con l’inquisitore che denunciava come le cause del Sant’Officio alla corte episcopale di Ancona si facessero «malissimo, perché non vi è segretezza et ogni cosa è venale, et in cambio di trattarle santamente servono per fare estorsioni de’ denari (che se nella corte episcopale si facessero le cause del Santo Officio gratis, et pro Deo amore, come in questo santo tribunale, non sarebbono così solleciti in procurare dette cause con dare anco buona mano o stipendio a denuncianti» . E si riconosceva il torto di un altro neofito, Paolo Savello, che aveva accusato un ebreo per stupro ad esclusivo scopo di lucro. Savello, secondo l’inquisitore, aveva fatto «questa inventione diabolica per cavarli (all’ebreo, ndr ) danari dalle mani, fingendo che ne sia accusato all’Inquisitione». Per merito dell’Inquisizione venivano alla luce personaggi all’interno delle corti episcopali, specializzati in pratiche quali «coprirsi del Santo Officio e sotto il suo nome con false iniuntioni rubbare li denari alli poveri hebrei». Il caso di Ancona, secondo Maifreda, «da un lato richiama la consumata abilità degli israeliti, frutto di plurisecolare necessità, nello scivolare tra le maglie giurisdizionali dei tribunali ecclesiastici e fra questi e le corti e magistrature secolari, a scopo autodifensivo; dall’altro dimostra però che i rapporti fra Inquisizione e comunità ebraiche furono più plastici di quanto non evidenzi l’analisi dei processi fondati su aspetti strettamente religiosi».
Già Grado Giovanni Merlo ne Il cristianesimo medievale in Occidente (Laterza) ha fatto notare come il ricorso agli strumenti di coercizione violenta non sia stato determinante nella vittoria della Chiesa romana sugli eretici. Per quanto «il pubblico non specialista, come già in passato eruditi mossi da, espressi o sottaciuti, intenti polemici» avverte Maifreda «possa inevitabilmente essere sedotto dalla miscela di attrazione e repulsione suscitata dalla dimensione cruenta dell’operato inquisitoriale, è oramai da ritenersi superata un’impostazione del discorso sull’Inquisizione imperniata sulla contrapposizione fra apologetica e Leyenda negra». Lo storico, però, poi mette le mani avanti: la sua «lettura aperta del funzionamento dei tribunali dell’Inquisizione non si propone assolutamente di schiacciare il loro operato sulla mera dimensione economica, ciò che sarebbe scorretto sotto il profilo epistemologico oltre che, allo stato attuale della documentazione e delle ricerche, rigorosamente indimostrabile». Tale modo di guardare all’Inquisizione, però, «può consentirci di dischiudere l’interpretazione dell’operato dei tribunali di fede a una pluralità di variabili e a una circolarità di decisioni e funzioni, i cui molteplici presupposti e conseguenze sono da vagliare caso per caso». E, talvolta, sezionando anche il singolo caso. Meritoriamente.

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