Saggi. La paralisi politica dell'Unione europea è da cercare nella gerarchie di potere tra i paesi del vecchio continente. E dalla visione miope di chi ha tratto vantaggio dall'assenza di una gestione sovranazionale della crisi del neoliberismo. "L'Europa in trappola" del sociologo tedesco Claus Offe per la casa editrice Il Mulino
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Il codice bloccato della sovranità nazionale

Saggi. La paralisi politica dell’Unione europea è da cercare nella gerarchie di potere tra i paesi del vecchio continente. E dalla visione miope di chi ha tratto vantaggio dall’assenza di una gestione sovranazionale della crisi del neoliberismo. “L’Europa in trappola” del sociologo tedesco Claus Offe per la casa editrice Il Mulino

Saggi. La paralisi politica dell’Unione europea è da cercare nella gerarchie di potere tra i paesi del vecchio continente. E dalla visione miope di chi ha tratto vantaggio dall’assenza di una gestione sovranazionale della crisi del neoliberismo. “L’Europa in trappola” del sociologo tedesco Claus Offe per la casa editrice Il Mulino

Quando ciò che è neces­sa­rio è al tempo stesso impos­si­bile, scatta una trap­pola per­fetta. È quella che Claus Offe descrive in un breve, bril­lante sag­gio inti­to­lato, appunto, L’Europa in trap­pola (il Mulino, pp.100, euro 10). Ma que­sta coin­ci­denza di neces­sità e impos­si­bi­lità non dovrebbe celare il fatto che esse si col­lo­cano su due piani distinti. Per uscire da una crisi nel cui oriz­zonte è com­preso anche un cata­stro­fico sfal­da­mento dell Unione euro­pea sarebbe neces­sa­rio, secondo Offe, ridurre gli squi­li­bri e le divi­sioni che la per­cor­rono attra­verso una «mutua­liz­za­zione del debito su larga scala e a lungo ter­mine», per esem­pio attra­verso l’emissione di euro­bond, da una parte, e otte­nere una cre­scita di com­pe­ti­ti­vità attra­verso l’adeguamento del costo del lavoro nei paesi peri­fe­rici, dall’ altra. Que­sta neces­sità si situa, dun­que, sul piano dei mer­cati e della com­pe­ti­zione globale.

Tra noi e loro

L’impossibilità è invece quella di ott­te­nere per via demo­cra­tica che que­sto si rea­lizzi. E cioè che i cit­ta­dini dei paesi più forti accet­tino di farsi carico di un debito «euro­peiz­zato», rinun­ciando, in nome dell’interdipendenza con­ti­nen­tale, a un van­tag­gio con­tin­gente espo­sto a evi­denti rischi di crollo, non­ché di imporre alle popo­la­zioni dei paesi più deboli un ulte­riore abbas­sa­mento dei livelli di vita in nome della com­pe­ti­ti­vità. L’impossibilità si situa dun­que, tra mio­pia egoi­stica e resi­stenza sociale, sul piano della poli­tica demo­cra­tica. Per dirla altri­menti la poli­tica demo­cra­tica è l’«impossibile» della com­pe­ti­zione sul mer­cato e vice­versa. Sta tutto qui il mistero di quella «Europa poli­tica», capace di fron­teg­giare i vin­coli impo­sti dalla dot­trina libe­ri­sta, che non ha mai visto la luce. Que­sta con­trad­di­zione rende assai pro­ble­ma­tica l’idea, soste­nuta da Offe pur senza nascon­derne le enormi dif­fi­coltà con­nesse con l’orizzonte nazio­nale entro cui agi­scono le forze poli­ti­che, che un pro­cesso di «illu­mi­na­zione» dei cit­ta­dini euro­pei rie­sca a rimuo­vere quella distin­zione tra «noi» e «loro», tra le «virtù ope­rose» del nord e il «con­sumo paras­si­ta­rio» del sud che lavora alla disgre­ga­zione dell’Unione euro­pea. Senza una poli­tica capace di opporsi con deci­sione alle impo­si­zioni della ren­dita finan­zia­ria, che pro­spera, appunto, gra­zie agli squi­li­bri e alle divi­sioni, neces­sità e impos­si­bi­lità con­ti­nue­ranno a coe­si­stere e a pro­durre con­di­zioni di para­lisi poli­tica e di con­cor­renza tra gli stati mem­bri. Ma lo spa­zio di una sif­fatta poli­tica non può che essere quello dell’Europa, quello di un punto di vista sovra­na­zio­nale, oppo­sto alla cre­scente nostal­gia per gli Stati-nazione.

Tut­ta­via la costru­zione euro­pea resta poli­ti­ca­mente ostag­gio delle sovra­nità nazio­nali. Ne è un chiaro esem­pio quel tavolo diplo­ma­tico inter­go­ver­na­tivo che è il Con­si­glio euro­peo. A loro volta le sovra­nità nazio­nali sot­to­stanno ai vin­coli comu­ni­tari che i rap­porti di forza tra i diversi paesi hanno pro­dotto e che ripro­du­cono così una asim­me­tria e una gerar­chia di fatto tra le sovra­nità nazio­nali stesse. È quanto di più distante si possa imma­gi­nare da un pro­cesso demo­cra­tico di inte­gra­zione, per non par­lare di fede­ra­li­smo. Qui sta il pro­blema, intorno al quale da Ulrich Beck a Jur­gen Haber­mas cre­sce l’allarme, dell’«Europa tede­sca». Non è un mistero che Ber­lino abbia tratto i mag­giori van­taggi dal con­te­sto euro­peo, dall’architettura dell’Unione, dalle sue lacune e dagli errori stessi com­messi nel corso della sua edi­fi­ca­zione. Soprat­tutto dall’aver con­fi­gu­rato quello che doveva costi­tuire uno spa­zio di coo­pe­ra­zione come uno spa­zio con­cor­ren­ziale in cui il sur­plus degli uni com­porta il defi­cit degli altri. Que­sta con­sta­ta­zione spinge Offe a soste­nere la seguente posi­zione: «quanto più un attore (uno stato mem­bro e la sua eco­no­mia) ha bene­fi­ciato (gra­zie a tassi di inte­resse più bassi e tassi di cam­bio esterni dell’euro più favo­re­voli) degli errori com­messi col­let­ti­va­mente, tanto più dovrebbe con­cor­rere all’onere di com­pen­sare chi ha mag­gior­mente sof­ferto di que­gli errori». Si tratta non solo di un impe­ra­tivo morale – aggiunge Offe – ma anche di un con­creto inte­resse di lungo ter­mine a sal­va­guar­dare un accordo che ha arre­cato al paese o ai paesi «vin­centi» tanti van­taggi. Si parla, è chiaro, della e alla Ger­ma­nia, cui spet­te­rebbe la «mag­giore respon­sa­bi­lità cor­ret­tiva» degli squi­li­bri che afflig­gono il vec­cio con­ti­nente. Fatto sta che gli «errori» e le «distra­zioni» sono piut­to­sto scelte con­sa­pe­voli e capar­bia­mente per­se­guite dalle oli­gar­chie finan­zia­rie e dai cate­chi­smi eco­no­mici adot­tati dai governi degli stati mem­bri dell’Unione. Le cui classi diri­genti sono assai poco pro­pense a rive­dere dei prin­cipi che rego­lano i rap­porti di classe e la distri­bu­zione della ric­chezza entro gli stessi con­fini nazio­nali. Non si può pre­ten­dere alcuna lun­gi­mi­ranza né dalle forze poli­ti­che che vivono oppor­tu­ni­sti­ca­mente dell’immediatezza del con­senso e del soste­gno di poteri forti, né da una dot­trina, quella del libe­ri­smo, che si con­si­dera eterna e priva di alter­na­tive. Le une e l’altra vivono nella dimen­sione di un pre­sente che non può fare altro che ripro­dursi nei mede­simi termini.

Il neces­sa­rio impossibile

Per uscire da que­sta impasse, dall’«impossibilità del neces­sa­rio», ser­vi­rebbe una netta affer­ma­zione della ratio sovra­na­zio­nale sull’ottica nazio­nale e sem­pre più peri­co­lo­sa­mente nazio­na­li­sta. Ossia uno scarto dell’agire poli­tico dal codice «nazione vs. nazione» al codice «classe sociale vs. classe sociale». Per illu­strare in maniera chiara e ine­qui­voca que­sto scarto Offe ricorre al seguente esem­pio: «due tede­schi, uno dei quali minac­ciato dalla disoc­cu­pa­zione, hanno pro­ba­bil­mente meno in comune, sul piano degli inte­ressi socioe­co­no­mici, di due euro­pei minac­ciati dalla disoc­cu­pa­zione, uno dei quali tede­sco». Non ci vuol molto a cogliere in que­sta for­mu­la­zione la riven­di­ca­zione di un punto di vista inter­na­zio­na­li­sta e di classe. Lad­dove que­sto «in comune» trat­teg­gia un con­cetto di «soli­da­rietà» non più fon­dato su un prin­ci­pio etico, ma sul rico­no­scersi col­let­ti­va­mente entro una con­di­zione nega­tiva che deve essere rove­sciata. Esi­stono mol­te­plici stru­menti di divi­sione, tal­volta ricatti, talal­tra pro­messe, effi­caci nel divi­dere le vit­time della crisi nei diversi paesi e unire, al con­tra­rio, i suoi bene­fi­ciari. Ma vi sono anche delle evi­denze ben per­ce­pi­bili. Per esem­pio il fatto che il sur­plus com­mer­ciale della Ger­ma­nia non vada affatto a finire nelle tasche dei lavo­ra­tori tede­schi, ele­van­done il livello di vita e di con­sumo, magari a van­tag­gio di eco­no­mie meno com­pe­ti­tive, ma ad ingros­sare pro­fitti e ren­dite finan­zia­rie. Tut­ta­via è dif­fi­cile imma­gi­nare che il pas­sag­gio di «codice» auspi­cato dal socio­logo tede­sco possa affer­marsi attra­verso una ripresa spon­ta­nea di «illu­mi­ni­smo» poli­tico. Più rea­li­sti­ca­mente è una rot­tura della pace sociale nei paesi «vin­centi» (dove non sono tutti a vin­cere) così come nei paesi «per­denti» (dove non sono tutti a per­dere) la sola chance per rie­qui­li­brare e demo­cra­tiz­zare la costru­zione euro­pea. Comin­ciando dal demo­lire riti e miti di unità nazio­nali in evi­dente pre­ci­pi­zio verso chiu­sure iden­ti­ta­rie e nazio­na­li­smi confliggenti.

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