Dolomiti. Un destino da intrusi in quel mare esiliato

Le montagne sono il salto in alto della terra. Immense collisioni le hanno spinte dal sottosuolo in su, fissandole a muraglia. Di solito dividono due Stati, a ognuno il suo versante. Le Dolomiti no, non servono a dividere. Le frequento da più di mezza vita, ho messo le mie mani addosso a loro. Mi hanno accarezzato e anche assestato qualche scappellotto rompendomi il naso e poi anche la mano con cui scrivo di loro.

Le montagne sono il salto in alto della terra. Immense collisioni le hanno spinte dal sottosuolo in su, fissandole a muraglia. Di solito dividono due Stati, a ognuno il suo versante. Le Dolomiti no, non servono a dividere. Le frequento da più di mezza vita, ho messo le mie mani addosso a loro. Mi hanno accarezzato e anche assestato qualche scappellotto rompendomi il naso e poi anche la mano con cui scrivo di loro.

Ci ho trovato i resti della più assurda guerra, che cent’anni fa scavava trincee sulle pareti a picco e trapanava gallerie per farle esplodere sotto le scarpe nemiche. La guerra del ’15-’18 si contese cocuzzoli inservibili, mentre le sorti militari si decidevano in pianura. La più potente camera di scoppio fu scavata dagli Italiani trapanando in salita il Castelletto della Tofana di Rozes. Servì a occupare quella cima per pochi momenti.

Appena dopo l’esplosione l’incompetenza dei nostri comandi ordinò l’attacco attraverso il cunicolo della camera di scoppio. Tutto il primo reparto morì asfissiato dai gas dell’esplosione. La seconda ondata dovette arrampicarsi sui corpi dei compagni. Oggi quella galleria è attrezzata per uso degli escursionisti. Per chi se la sente, è un’esauriente introduzione all’imbecillità criminale della guerra.
Tra le Dolomiti ho trovato i resti del mare, dal quale provengono. Un antico filosofo greco, Anassimandro di Mileto, pensò che fossili marini sui monti fossero il resto di una battaglia della terra che scacciò di lì il mare. Non poteva immaginare che fu vero il contrario: il fondo del mare aveva espulso le montagne verso l’esilio dei cieli, più di tremila metri al di sopra delle onde.
Oggi dall’alto di una cima vedo le Dolomiti intorno come un arcipelago di terre emerse. All’ora di un tramonto d’estate che le rosola, confessano di essere fatte di coralli e frantumi di conchiglie, opera del più raffinato dei carbonati di calcio e di magnesio. La loro bellezza è fragile, alla base si stendono i ghiaioni formati dai frantumi bianchi dei loro cedimenti. Sgretolate dai fulmini, dal vento, dal ghiaccio e anche dal sole, le Dolomiti mostrano uno strascico nuziale di pendii, scomodi da risalire e sfiziosi da scendere a salti e a rotta di collo. Non stanno ferme: perdono pezzi e intanto aumentano di altezza, continuamente spinte da una legge opposta all’attrazione terrestre. Il loro clima è instabile, pure con le accurate previsioni attuali può capitare un temporale che si accanisce imprevisto su una cima, mentre su quella accanto il cielo è sgombro. L’alpinista impegnato sotto i pizzichi dei fulmini impara che in Dolomiti si gioca a testa o croce, e bisogna attrezzarsi per ogni evenienza, prima di tutto la dose di fortuna indispensabile. Alla base di una delle magnifiche pareti, staccando da terra i piedi con il primo passaggio verso l’alto, sento nelle ossa un solletico affettuoso. La parte minerale del mio corpo riceve un benvenuto dagli elementi chimici in comune. Con la faccia a pochi centimetri dalla roccia, tutto l’ambiente intorno sparisce dietro le spalle. Anche se c’è passaggio di persone e di mezzi sulle strade, bastano poche decine di metri in alto per essere isolato. Non dalle accelerazioni delle motociclette smarmittate che sfregiano l’aria e la stracciano con il loro chiasso di alveare meccanico: quello resta a ricordare che siamo degli occupanti dell’ambiente e non dei migratori di passaggio.
Ho accompagnato qualche amico a scalare per la prima volta nelle Dolomiti. Su una parete spalancata a foglio, sopra qualche spigolo ventoso come una prua, ho diffuso il contagio febbrile con la roccia dolomia. È attrito a volte freddo, elettrico, tra polpastrelli e appigli, è avanzata di dita che frugano alla cieca verso l’alto la presa successiva, è spreco di energie felici di sprecarsi. Qualcuno ha sigillato l’esperienza in un ricordo unico, da non sovrapporre con una seconda volta. Altri hanno subìto l’effetto collaterale dell’entusiasmo, che istiga a riandare a quattro zampe sui
centimetri esatti e necessari.
Oggi a chi scala per la prima volta in Dolomiti mi sento di avvisare che può nuocere al suo sistema nervoso inducendo dipendenza dalla bellezza e un falso sentimento di confidenza. Quella materia regale non è lì per accogliere, è indifferente a noi, alle goffe intenzioni di conquista come a quelle più umili di starsene in disparte. Non siamo ospiti di nessuna montagna, perché non invitati. Siamo intrusi, sbarcati su uno scoglio affiorato dagli impetuosi milioni di anni. Non facciamoci ingannare dall’apparenza di esserci arrivati a piedi anziché a nuoto. Lassù qualunque scalatore è un naufrago che cerca di raggiungere la terraferma in cima.

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