La sensazione di morte ti accoglie sin da quando si entra nel giardino antestante il Museo della Memoria di Ustica situato in un ex capannone in via Saliceto nella prima periferia di Bologna: dentro giace la carcassa ricostruita del DC9 della compagnia Itavia partito dall’aereoporto di Bologna il 27 giugno 1980 senza mai arrivare a destinazione perché si era sfracellato in volo. Perché?
La sensazione di morte ti accoglie sin da quando si entra nel giardino antestante il Museo della Memoria di Ustica situato in un ex capannone in via Saliceto nella prima periferia di Bologna: dentro giace la carcassa ricostruita del DC9 della compagnia Itavia partito dall’aereoporto di Bologna il 27 giugno 1980 senza mai arrivare a destinazione perché si era sfracellato in volo. Perché?
Su ciò regna ancora il mistero, ma non è questo il luogo per elencare gli innumerevoli interrogatori e depistaggi, ricordiamo solo che il fascicolo è stato riaperto dalla magistratura nel 2008, essendo gli interrogativi a proposito tuttora tanti(e forse di più)quanti sono i lumi appesi al soffitto, i quali però hanno un numero preciso: 81. Erano tante le vittime, tra passseggeri e equipaggio, e tanti sono gli specchi neri appesi alle pareti attorno dietro i quali ci sono piccoli altoparlanti da cui escono voci che recitano pensieri che potevano anche non essere gli ultimi di persone comuni. La sera di sabato 25 settembre, entrare in quel giardino voleva dire essere accolti da melodie vibranti nell’aria, suonate da un quartetto d’archi piazzato davanti all’entrata del museo fortemente voluto dall’associazione delle vittime della strage, e che era nato nel 2007 quando i resti ripescati dal fondo del mare (quasi il 96%) erano stati portati nel capoluogo emiliano per diventare installazione permanente a cura di Christian Boltanksi. L’arte di questo scultore che da sempre utilizza i materiali più vari per esprimere i concetti a lui cari di memoria, inconscio, infanzia e morte come ciclo ininterrotto della vita nel suo nascere e rinascere, vive dell’interazione con il suono.
In concomitanza con la chiusura di Personnes all’Hangar Bicocca a Milano, al «suo» Museo a Bologna si è rinnovato il connubio artistico con il compositore Franck Krawczyk, con cui collabora da oltre dieci anni: qui è stata la volta di Fuga composto per l’occasione dal musicista – di origini franco-polacche come lo stesso Boltanski – e suonato da una violencellista solista (Sarah Givelet), il Quartetto d’archi Guido Reni e il Bologna Cello Project, ensemble di violoncelli espressione del Conservatorio G.B. Martini di Bologna (prodotto dai francesi Plein Jour con AngelicaFestival, Cronopios e Officina Immagine). Terminato il preludio all’aperto, il pubblico si è spostato all’interno, nella grande hall espositiva che ospita il DC9 ricomposto come un puzzle, pieno di polvere, situato più in basso rispetto alle passerelle che ci girano attorno. Sotto, posizionati tra le gigantesche ali, cominciarono a suonare uno dopo l’altro gli archi, e le note entrando in relazione con la scultura, la realtà storica, la tragedia consumatasi nel mare, si mescolavano con le voci sussurrate, quei brandelli di pensiero del tipo «appena arrivo…», «le avranno piantate le rose?» oppure «dio mio, ho paura dell’aereo». Una struttura sonora complessa che andava a formare un’alchimia indistinta tra arte materiale e immateriale.
Quella Fuga suonata ininterrottamente di nuovo, ogni volta che entrava un altro violoncellista per sedersi alla sua postazione in basso, si librava nell’aria per avvolgere piano piano il cadavere metallico frantumato che si regge sulle reti posticce conferendogli un che di umano. Tanto era tetra l’atmosfera quanto suggeriva la suggestiva visione di un dolce accompagnamento sonoro nella lenta immersione nelle acque profonde. Quasi una rappacificazione con la cruda verità dell’esplosione in aria.
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