Una e mille Bovary. La cultura della merce, la merce della cultura

Nell’era dei media di massa gli individui tendono, come l’eroina di Flaubert, a vedersi differenti da ciò che sono. Da Gilles Lipovetsky a Paul Virilio, trame di lettura sui modelli comunicativi nella «civiltà  del gossip»

Nell’era dei media di massa gli individui tendono, come l’eroina di Flaubert, a vedersi differenti da ciò che sono. Da Gilles Lipovetsky a Paul Virilio, trame di lettura sui modelli comunicativi nella «civiltà  del gossip»

Il concetto di cultura è talmente ampio che persino darne una definizione accettabile rappresenta, e non da oggi, un compito estremamente arduo. Si spiega così perché i cambiamenti culturali vengano individuati con grande difficoltà da parte degli individui. Eppure negli ultimi anni la cultura, soprattutto in Occidente, si è trasformata tanto radicalmente, come testimoniano alcuni libri recenti, che vale la pena di compiere uno sforzo per metterla sotto osservazione.
Se la cultura ha modificato in profondità la sua natura è perché – sostengono Gilles Lipovetsky e Jean Serroy nel volume La cultura-mondo. Risposta a una società disorientata (Edizioni Obarra, pp. 206, euro 22) – non può più essere considerata un semplice insieme organizzato di forme espressive, norme e valori. Si può invece affermare che, a seguito di un processo di intenso sviluppo, si sia fatta mondo, il mondo concreto e fisicamente sperimentabile del tecnocapitalismo, del consumo, della moda, dei media e dell’industria culturale. Un mondo globale, dominato dai capitali delle multinazionali, ma anche in grado di funzionare secondo la logica della Rete e dello spettacolo mediatico. Un mondo comunque che non è più secondario e periferico, ma ha conquistato un ruolo primario nell’immaginario collettivo e individuale ed è in grado di trasformare la vita quotidiana delle persone così come ambiti primari della società, dalla politica al commercio.
In tale mondo tendono a disgregarsi dicotomie consolidate come quella tra reale e virtuale o cultura alta e cultura bassa, messe in crisi da una situazione nuova nella quale, contemporaneamente, la cultura si è mercificata e la merce si è «acculturata». Da un lato la cultura si è mercificata facendosi mercato attraverso una abnorme offerta di informazioni, immagini, suoni, festival, prodotti e marche da consumare. D’altro lato la culturalizzazione della merce è avvenuta perché quest’ultima ha progressivamente arricchito la sua capacità di dare vita a significati e valori e di farli circolare nella società, inglobando le produzioni artistiche per promuovere i suoi prodotti, ma soprattutto proponendosi come uno strumento in grado di generare messaggi e spettacoli.
Modelli (poco) universali
In apparenza, la situazione è paradossale, perché è noto che il capitalismo ha bisogno di mantenere in vita l’autonomia della cultura: le comunità infatti possono dedicarsi alle attività commerciali solo se al loro interno sono ben sviluppati gli scambi comunicativi tra gli individui. La sfera economica non può prescindere dalla sfera culturale, che è la sorgente da cui provengono le norme condivise in grado di creare un ambiente affidabile dove il commercio possa aver luogo. Per produrre valore economico, dunque, il capitalismo ha una necessità vitale del ruolo socialmente svolto dalla cultura, eppure tende nello stesso tempo a soffocarla e a indebolire le fondamenta che rendono possibile le sue relazioni commerciali.
Allo stesso modo, la cultura, nel farsi «ipercultura», via via che apre i suoi confini, tende progressivamente a trasferire al proprio interno anche i conflitti sociali e politici esistenti nella società. Più si globalizza cioè, più è costretta a dare spazio a rivendicazioni particolaristiche. E ciò significa anche che, mentre propone modelli universali agli individui, offre loro anche una maggiore autonomia e più elevate possibilità di incidere sulle proprie scelte e sulla propria esistenza.
Capacità di sintesi
Analogamente, le possibilità di comunicare con gli altri individui non sono mai state tanto sviluppate nella storia dell’umanità, eppure gli individui soffrono in maniera crescente della mancanza di relazioni sociali. Tendono a creare gruppi e comunità particolari, in Rete e fuori, ma vi partecipano come singoli che intendono rimanere tali. Che intendono cioè rimanere liberi da legami e privi di impegni, perseguendo un progetto narcisistico basato principalmente sull’espressione del sé, sull’esibizione pubblica della vita privata e dell’intimità personale.
Nonostante queste contraddizioni, il sistema economico continua a funzionare e la cultura-mondo sta irreversibilmente manifestando la sua capacità di sintesi. Secondo Lipovetsky e Serroy, questo avviene grazie a un processo di «intensificazione» della società che si manifesta principalmente in quattro aree: l’economia capitalistica, la tecnica, l’individualismo e il consumo. Si tratta di aree dove ideologie e regole tradizionali non funzionano più, mentre si determina una crescita continua incontrollata, che applica il classico modello di sviluppo del mercato. Così tale modello diventa lo schema organizzativo dell’intera società. E anche gli individui tendono a seguirlo, basando i propri comportamenti sul calcolo, sull’efficienza e sul successo economico. Se l’analisi di Lipovetsky e Serroy è corretta, allora non è un caso che il modello da seguire per i comportamenti individuali diventi sempre più quello delle star dello spettacolo e che, formalizzato dal cinema hollywoodiano classico durante la sua epoca d’oro, è diventato oggi uno dei punti di riferimento fondamentali dell’intera cultura-mondo. In questo processo di diffusione, però, il modello della star ha perso parte del suo fascino. Se può essere applicato a tutti, al divo dello spettacolo come all’uomo della strada, si banalizza, non è più eterno e irraggiungibile, ma effimero e vicino.
Il divismo rimane comunque un modello centrale per i comportamenti individuali nell’Italia di oggi. Assistiamo infatti al progressivo installarsi nella società di quella che Massimiliano Panarari ha chiamato «egemonia sottoculturale» nel libro dal titolo omonimo (L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, pp. 145, euro 16.50). Secondo Panarari, il concetto di «egemonia culturale» che Gramsci aveva elaborato per dimostrare come la cultura popolare fosse in grado di lottare efficacemente contro la cultura delle classi dominanti per il controllo dell’egemonia nella società può essere applicato alla cultura che si è andata imponendo negli ultimi anni nel contesto italiano. Una cultura che è diventata appunto «sottocultura», vale a dire un nutrito insieme di cronaca nera, cronaca rosa, gossip, che si caratterizza per una connotazione politica di destra o comunque qualunquistica e che ha man mano occupato lo spazio lasciato libero dalla cultura di sinistra – quella cultura cioè che tendeva a essere «alta» e proprio per questo è stata rifiutata in un contesto sociale dove a prevalere è un mezzo di comunicazione di massa e «nazionalpopolare» come la televisione. L’opinione pubblica contemporanea, ammesso che possa ancora considerarsi tale, preferisce infatti essere impegnata in interminabili discussioni sull’ultimo amore del «tronista» del programma di Maria De Filippi o sulla saga del rampollo di Casa Savoia, diventato prima ballerino e poi cantante.
Articoli in vetrina
Si è andata dunque imponendo nella società odierne una sorta di «gossipcrazia» e con essa un modello divistico le cui radici si possono far risalire a un’epoca di radicali trasformazioni come è stata quella ottocentesca della seconda rivoluzione industriale. È in tale epoca d’altronde che, come ha osservato Davide Borrelli in Pensare i media. I classi delle scienze sociali e la comunicazione (Carocci, pp. 183, euro 16), si possono rintracciare anche le origini dei comportamenti del telespettatore contemporaneo, i quali sono in sostanza simili a quelli adottati dalla Emma Bovary raccontata dallo scrittore Gustave Flaubert a metà del XIX secolo. L’epoca dei media di massa porta dunque con sé il modello del «bovarismo», basato sulla facoltà immaginativa di «credersi diversi da ciò che si è», ovvero su quell’attitudine a imitare qualcuno che è diverso da sé, sebbene percepito come raggiungibile. Non è un caso che tale modello sia nato nel contesto sociale emerso in seguito al crollo dello statico regime aristocratico. E dunque quell’affermazione dell’immagine personale e quello sfoggio di beni di lusso e di moda che caratterizzavano il bovarismo erano necessari agli individui per immaginarsi in un ruolo differente e costruirsi un’altra identità.
In questo tipo di società, come ha rilevato Borrelli, il modello comunicativo della vetrina ha assunto progressivamente il ruolo di riferimento centrale, grazie alla sua capacità di valorizzare l’identità delle merci come delle persone attraverso l’immagine che di tale identità viene trasmessa all’esterno. In precedenza, i membri delle famiglie vivevano solitamente tutti insieme in un unico modesto spazio e non era possibile distinguere tra privato e pubblico. È stata la borghesia, grazie fondamentalmente al suo più elevato livello di ricchezza economica, a operare questa distinzione e a consentire agli individui di crearsi pubblicamente un’immagine differente da quella privata. Ma oggi, nell’epoca della Rete e della connessione totale di tutto con tutti, il modello della vetrina ha cominciato a disgregare questa distinzione, senza tuttavia intaccare l’efficacia del suo funzionamento: ha cominciato cioè ad aumentare la sua trasparenza, a operare sempre meno come barriera che impedisce il contatto, a fondere inestricabilmente privato e pubblico. D’altronde, il divo stesso appare sempre più in difficoltà nel tutelare il suo spazio privato.
Schermi e allucinazioni
Il frequente ricorso contemporaneo al modello del bovarismo deriva probabilmente anche da quella disorientante condizione di eccesso di realtà in cui gli individui si trovano oggi sempre più immersi. Una condizione che Paul Virilio ha evidenziato da tempo e ha ora messo sotto la sua lente di ingrandimento nel saggio Le Futurisme de l’instant. Stop-Eject (Galilée, pp. 97, euro 16), parzialmente tradotto in italiano sul primo numero di «Alfabeta 2» (luglio-agosto 2010). Se cioè la cultura sociale, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, accelera progressivamente la sua velocità, l’essere umano si trova a dover vivere in uno spazio contratto e in un istante onnipresente, dove passato, presente e futuro tendono a fondersi. Perde così la sua capacità di orientarsi nello spazio e nel tempo, di riuscire ad abitare effettivamente il mondo culturale in cui vive. Anche perché si trova in una condizione di tipo allucinatorio, dove le sue esperienze si basano su ciò che sperimenta attraverso una moltitudine di schermi. Schermi nei quali, come ha scritto lo stesso Virilio, «la messa a fuoco del campo visivo ci distoglie dalla percezione laterale, dal campo lungo che forniva di ampiezza corrente lo spazio reale dei confini delle nostre attività, e con questo induce un disorientamento dell’essere qui».
Se gli individui ricorrono al modello del divo, è perché hanno bisogno di affermare la propria identità attraverso immagini personali forti. Immagini, certo, destinate a usurarsi rapidamente, ma comunque capaci, almeno per un certo periodo, di imporsi all’attenzione generale.

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