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Un Io femminile smisurato e bellicoso

Autobiografie. “La mia doppia vita”, prima tranche dalle memorie di Sarah Bernhardt, un paradigma dell’abisso che a volte separa l’arte dalla vita
Autobiografie. “La mia doppia vita”, prima tranche dalle memorie di Sarah Bernhardt, un paradigma dell’abisso che a volte separa l’arte dalla vita

Nel terzo volume della Recher­che di Proust, Mar­cel arriva a rico­no­scere, durante una serata di gala all’Opéra, le ragioni che deter­mi­nano il talento di una sublime attrice tra­gica – la Berma – impe­gnata per l’occasione nel per­so­nag­gio di Fedra. Quando la Berma entra in scena rie­sce a svi­lup­pare l’incantesimo di un’arte dram­ma­tica dove la voce e i gesti col­la­bo­rano, fino a far appa­rire la reci­ta­zione non come il risul­tato di uno sforzo tec­nico, ma come una vera e pro­pria «offerta di vita». Nutrita da ragio­na­menti ben più «pro­fondi» rispetto a quelli degli altri attori, l’interpretazione della Berma, secondo Mar­cel, è in grado di creare «attorno all’opera una seconda opera vivi­fi­cata dal genio».

Se voles­simo iden­ti­fi­care il pro­ba­bile modello del per­so­nag­gio della Recher­che, baste­rebbe lasciarsi gui­dare dall’assonanza dei nomi. Die­tro la maschera della Berma, può celarsi infatti la grande Sarah Ber­n­hardt, il cui debutto nel 1874 come pro­ta­go­ni­sta, sul pal­co­sce­nico della Comédie-Française, si lega peral­tro all’interpretazione di Fedra. Sco­prire i segreti e i retro­scena dell’arte che ha incan­tato Proust, e che ha deter­mi­nato il suc­cesso dell’attrice, sem­bra invece impresa più ardua. Non ci aiuta nel com­pito nem­meno La mia dop­pia vita (Castel­vec­chi, pp. 360, euro 25,00), l’autobiografia dove Sarah Ber­n­hardt rac­conta la prima parte della sua carriera.

Tra que­ste pagine non tro­viamo affatto – come vor­rebbe la quarta di coper­tina del libro – «un tas­sello della costru­zione del mito» dell’artista. Ci attende piut­to­sto, nella sezione ini­ziale, l’infanzia di una bam­bina sogna­trice, col­le­rica e biso­gnosa di affetto, che viene per­suasa dalla fami­glia ad abban­do­nare la voca­zione a «farsi suora» per entrare, all’età di quin­dici anni, nel mondo del tea­tro. «La mia evo­lu­zione comin­ciò quel giorno – afferma Sarah Ber­n­hardt – sen­tivo il biso­gno di crearmi una per­so­na­lità». Ma se pen­sas­simo che La mia dop­pia vita si impe­gnerà a rac­con­tarci la costru­zione di quella per­so­na­lità reste­remmo subito delusi. L’io di Sarah, per il momento, non viene appro­fon­dito né svi­lup­pato, in par­ti­co­lar modo sotto il pro­filo arti­stico: l’autobiografia si accon­tenta di regi­strare il calen­da­rio di un fati­coso approdo alle scene, tra­sci­nan­dosi die­tro una sorta di spon­ta­neità naïf che da una parte aumenta forse il tasso di veri­di­cità del rac­conto, ma dall’altra rischia di far crol­lare a picco anche il più fri­volo interesse.

È vero che, per rilan­ciare la ten­sione, Sarah Ber­n­hardt fa ampio uso delle anti­ci­pa­zioni e non perde l’occasione di decla­mare le svolte, le fasi e le date cru­ciali che segne­ranno la sua futura con­sa­cra­zione arti­stica. E tut­ta­via, ogni appun­ta­mento col destino, subito dopo esser stato pro­messo, viene ben pre­sto pas­sato sotto silen­zio, tra­scu­rato o bru­ciato da una scrit­tura piatta, dove gli eventi si sbri­cio­lano sotto il peso di un’ingenuità disarmante.

Chi dice Io non si trat­tiene dal lan­ciare a ogni pagina escla­ma­zioni scon­tate, oppure si abban­dona, tra descri­zioni insi­gni­fi­canti delle strade e degli ambienti di Parigi, ad anno­ta­zioni sui pro­pri teneri sen­ti­menti o sul ricordo della madre, della sorel­lina, dell’istitutrice o della zia che accom­pa­gnava ogni audi­zione della pro­pria pupilla.

Per que­sti versi, quando si arriva ai capi­toli che segnano l’ingresso di Sarah alla Comédie-Française nel 1862, si fini­sce per sen­tirsi rag­gi­rati. Nono­stante Sarah Ber­n­hardt ci fac­cia sapere che riu­scirà a diven­tare «la prima, la più cele­bre, la più ammi­rata», non dà segno di voler sve­lare gli arcani della pro­pria pro­fes­sione, né tan­to­meno è dispo­sta ad aprirci le porte della sua sala prove. Non c’è spa­zio, nella Mia dop­pia vita, per lo stu­dio dei ruoli, per le lezioni dei mae­stri o per le tec­ni­che di reci­ta­zione. Men­tre l’artista resta die­tro le quinte, sul pal­co­sce­nico dell’autobiografia sfi­lano all’ordine del giorno gli scatti d’ira, le crisi di nervi, le sfu­riate, i litigi e le prese di posi­zione della prima donna. Ad acca­par­rarsi le luci della ribalta sono più che altro i capricci della diva, che costi­tui­scono la pre­ve­di­bile ere­dità del suo «carat­te­rino» di bam­bina e che la met­tono sem­pre in guerra con impre­sari e col­le­ghi, fino a deter­mi­nare la sua cac­ciata dalla Comé­die nel 1866 e il suo ripiego sul tea­tro dell’Odéon.

La delu­sione tocca l’apice quando in seguito la Ber­n­hardt, ram­men­tando il suo rien­tro alla Comé­die, rie­voca il pro­prio debutto come pro­ta­go­ni­sta nella Fedra. Sem­bra impos­si­bile che l’unico ricordo degno di nota, per quella serata fatale, sia rap­pre­sen­tato dalla pron­tezza di spi­rito di un com­pri­ma­rio dell’attrice, che col suo buffo maquil­lage l’ha fatta ridere e ha allen­tato la sua ten­sione para­liz­zante prima dell’entrata in scena. È come se La mia dop­pia vita, facendo leva su simili aned­doti, non riu­scisse a svi­lup­pare il poten­ziale di un Io che non esita a defi­nirsi «smi­su­rato» e «bel­li­coso», o peg­gio si impe­gnasse a sep­pel­lirne il genio sotto una col­tre di epi­sodi risi­bili, senza met­tere a pro­fitto sul ver­sante della nar­ra­zione auto­bio­gra­fica l’enorme reper­to­rio di «esa­ge­ra­zioni» che la Ber­n­hardt sostiene di aver sfog­giato in ogni fran­gente della sua esi­stenza. È così che a poco a poco si per­dono le tracce di una donna decisa a pre­sen­tarsi come un essere «attivo» e «com­bat­tivo», men­tre viene sof­fo­cata la deter­mi­na­zione che, a suo dire, l’ha spinta a per­se­guire il suo sogno «nono­stante tutto».

Sem­bra quasi che La mia dop­pia vita voglia far impal­li­dire il ritratto dell’attrice «mai stanca e affa­ti­cata», piena di «forza» e «resi­stenza al lavoro», che anche Edmond de Gon­court aveva trat­teg­giato nel pro­prio Dia­rio sulla base di alcune affer­ma­zioni di Dumas. A meno che la Ber­n­hardt non desi­deri fare della super­fi­cia­lità e della fri­vo­lezza il pro­prio cavallo di bat­ta­glia: in que­sto caso si rimane meno spae­sati quando Sarah ammette, quasi a com­mento della sua tec­nica auto­bio­gra­fica, di scor­dare le pro­messe fatte subito dopo averle pro­nun­ciate, e di essere costretta a inven­tarsi «delle sto­rie» per rime­diare alle dimen­ti­canze. Si spiega inol­tre, e allo stesso tempo, per­ché La mia dop­pia vita risulti sfian­cata, sotto il ver­sante memo­ria­li­stico, dalle osser­va­zioni di un testi­mone che rie­sce a pun­tare i riflet­tori solo sugli aspetti più con­ven­zio­nali dei per­so­naggi della sua epoca. Chiun­que appaia al cospetto della diva è infatti con­dan­nato a tra­mu­tarsi in una ste­rile figu­rina di carta, che con la sua posa mec­ca­nica perde di spes­sore e cre­di­bi­lità non appena apre bocca: basti pen­sare che Vic­tor Hugo, impe­gnato a gui­dare l’attrice durante le prove del Ruy Blas nel 1872, viene ridotto dal suo sguardo a un uomo «pieno di fascino e di bontà», con la «chioma fluente come fieno tagliato al chiaro di luna».

C’è da chie­dersi, a que­sto punto, in che modo simili bana­lità pos­sano col­la­bo­rare alla leg­genda del genio che è andata a depo­si­tarsi tra le pagine della Recher­che. A tratti sorge il sospetto che la Ber­n­hardt, dall’alto del suo divi­smo anar­chico, si sia diver­tita a fab­bri­care una sorta di con­tro­fi­gura fatua e pue­rile da dare in pasto alla massa «imper­so­nale» e pet­te­gola del pub­blico, anche per farsi beffe del «mostro della pub­bli­cità» che a suo avviso infe­sta la car­riera di ogni stella. In caso con­tra­rio, l’autobiografia della Ber­n­hardt rap­pre­senta il per­fetto para­digma dell’abisso che tal­volta inter­viene a sepa­rare l’arte dalla vita. Ci dimo­stra che l’attore, sulla scena, rie­sce a svi­lup­pare sogni che poi sono desti­nati a infran­gersi non appena ci si scon­tra col pro­filo della sua per­so­na­lità di superficie.

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