La storia dell’anarchico lombardo inghiottito in un gulag
La storia dell’anarchico lombardo inghiottito in un gulag
Che vita appassionata e tragica quella dell’anarchico Francesco Ghezzi, dall’orto delle Visitandine, nel cuore di Milano, alla Lubianka di Mosca a un gelido gulag in Siberia. L’ha ripercorsa un secolo dopo, con affetto, con pena mascherata, ma con il rigore dei documenti e il rispetto dei fatti, senza sposarne le idee, un nipote, il noto sindacalista Carlo Ghezzi, già segretario della Camera del lavoro di Milano, ora segretario della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Ne è nato un libro, Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia (edizioni Zero in condotta).
Francesco, cugino del padre di Carlo, nacque nel 1893 a Cusano sul Seveso in una famiglia numerosa di contadini poveri, di rigida educazione cattolica. Nel 1900 la famiglia si trasferisce a Milano, in via Santa Sofia 7. Il padre Giulio trova lavoro come giardiniere all’Orticoltura Longoni e ottiene anche la gestione della portineria di un istituto religioso della Curia del cardinal Ferrari, allora arcivescovo di Milano. Il quartiere ha un aspetto sereno, con i barconi carichi di merce che scivolano sull’acqua dei Navigli.
Non è serena invece Milano, in quegli anni. Il conflitto sociale è aspro, la crisi della fine dell’Ottocento si fa sentire ancora, non si sono per nulla rimarginate le ferite del tragico 1898, quando il generale Fiorenzo Bava Beccaris sparò col cannone e con la mitraglia contro gli operai in sciopero. Ufficialmente i morti furono ottanta, pare invece che siano stati quattrocento.
Il ragazzo Francesco, sveglio e intelligente, finite le elementari, lavora a bottega, tornitore di lastre, poi cesellatore del bronzo, un artigiano provetto. Forse è proprio l’ambiente un po’ codino della famiglia a far di lui un ribelle. Carlo Ghezzi non è uno storico, ma conosce bene politica e società e sa inserire la vicenda dell’anarchico nel clima che incendia la città e l’intero Paese: tra la nascita delle organizzazioni sindacali — la Confederazione generale del lavoro fondata proprio a Milano nel 1906 —, gli scontri di piazza, la guerra di Libia del 1911.
Francesco a sedici anni viene arrestato — è la sua prima volta — durante un raduno di protesta. Frequenta un gruppo di anarchici, si definisce anarchico individualista: un sovversivo, secondo i rapporti di polizia. Prende parte a manifestazioni antimilitariste, aderisce all’Usi, la più importante organizzazione sindacalista rivoluzionaria europea, conosce nel 1913 Errico Malatesta, l’uomo di maggior prestigio del movimento anarchico italiano, conosce anche il Mussolini socialista, che va a cena più volte nella sua casa in via Santa Sofia. Poi la Grande guerra, con le polemiche tra gli interventisti democratici, i neutralisti, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici schierati contro il conflitto mondiale. Francesco è sempre in prima fila, grida «Abbasso la guerra, viva l’Austria», viene arrestato più volte.
Chiamato alle armi, fugge in Svizzera, disertore. Nel 1917 è a Zurigo nel corteo festante che accompagna Lenin alla stazione da dove parte il famoso treno per Mosca. Viene arrestato anche in Svizzera, espulso, si rifugia a Parigi, può tornare in Italia solo nel 1920 dopo l’amnistia del governo Nitti.
La bomba del Diana segnerà come un’ombra nera la vita di Ghezzi. È il 23 marzo 1921 quando 160 candelotti di gelatina nascosti in una cesta esplodono alle 22,40 di quella sera: al teatro milanese è di scena Mazurka blu , l’operetta di Franz Lehár. I morti sono ventuno, i feriti ottanta. I sospettati sono subito gli anarchici che prendono le distanze, sconfessano l’accaduto. Ma due di loro confessano: Giuseppe Mariani, condannato all’ergastolo, Giuseppe Aguggini a trent’anni di prigione. Su Francesco Ghezzi — non ci sono prove — viene posta una taglia di cinquanta milioni. Scappa in Svizzera, poi a Berlino. Anni dopo sarà condannato a sedici anni di reclusione per associazione a delinquere.
La Russia è la grande madre, la patria del socialismo, il sol dell’avvenire. Francesco arriva felice a Mosca, ma la realtà, dopo un sereno periodo in Crimea, sarà cruda e amara. Dal 1924 Stalin è il segretario generale del Partito comunista, Francesco Ghezzi lavora in una gioielleria, tornitore di metalli preziosi. Mantiene i contatti con i vecchi compagni fuorusciti come lui e questo lo perde. Nel 1929 viene arrestato, condannato a tre anni di campo di lavoro per attività controrivoluzionaria. Intellettuali e politici di tutto il mondo, da Romain Rolland a Claude Autant-Lara, chiedono il suo rilascio, nel 1931 viene liberato. Lavora in fabbrica. Ha rapporti con Victor Serge, rivoluzionario anarchico, poi bolscevico, oppositore di Stalin proprio negli anni delle feroci purghe staliniane. Nel 1939 Ghezzi finisce alla Lubianka, accusato di trotzkismo, di sovversivismo, ed è condannato a otto anni di lavori forzati.
Tormentato dalla tubercolosi, viene destinato a Vorkuta, a nord del Circolo polare artico. Non rinnega mai la sua fede anarchica. Da allora non si sa più nulla di lui, scompare nelle nebbie della piccola Storia. Muore nel 1942, sarà riabilitato dalla Procura di Mosca solo nel 1994.
Un’altra vittima del tragico Novecento.
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Il libro di Carlo Ghezzi, «Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia», è pubblicato dalle edizioni Zero in condotta, pagine 123, e 10
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