Shoah, la memoria difficile e le colpe degli italiani

Il 27 gennaio sarà la Giornata della Memoria: in Italia è stata istituita con la legge numero 211 del 20 luglio 2000
Il 27 gennaio sarà la Giornata della Memoria: in Italia è stata istituita con la legge numero 211 del 20 luglio 2000

Sul tema della memoria abbiamo messo a confronto le opinioni di due persone diverse per età e formazione: Furio Colombo, che ha scritto e firmato quella legge, e Silvia Truzzi, giornalista del Fatto
Lo spunto è un pamphlet di Elena Loewenthal, “Contro il giorno della memoria”, in questi giorni in libreria per le edizioni Add.

LUNEDÌ LA GIORNATA DEDICATA ALLE VITTIME DELL’OLOCAUSTO: UN DIALOGO SUL SENSO DELLA RICORRENZA, SUGLI USI E ABUSI DELLA STORIA CHE HANNO CARATTERIZZATO IL DIBATTITO PUBBLICO

FURIO COLOMBO Mi ha colpito la motivazione iniziale del libro di Elena Loewenthal. Che suona più o meno così: un bel giorno le istituzioni hanno un figlio e quel figlio è il Giorno della Memoria. Che assomiglia ai genitori in tutto: è retorico, noioso, ripetitivo, ricattatorio, ansioso di novità e spettacolo. Tutto ciò lo può fare perché lei immagina che le istituzioni partoriscano istituzioni. Questo però non è il caso del Giorno della Memoria, un’iniziativa solitaria, che per cinque anni ha tentato disperatamente di venire alla luce. È stato l’ultimo atto della legislatura 1996, mentre io avevo presentato la proposta all’inizio del mandato parlamentare. La Loewenthal non tocca mai, nell’analisi della genesi del Giorno della Memoria, quello che per me è stato un presupposto fondativo: cioè che la Shoah è un crimine italiano. Quel delitto c’è stato, e l’Italia è stata un complice essenziale. Vorrei precisare che la data del 27 gennaio è stata scelta perché Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, me l’ha chiesto con forza e persuasione. “Questa legge non può riguardare solo noi”, mi ha detto. “Il 27 gennaio comprende un numero più largo di perseguitati”. Io avrei voluto il 16 ottobre 1943, giorno del rastrellamento nel ghetto di Roma. Se fosse stato scelto il 16 ottobre, questo libretto contro il Giorno della Memoria non avrebbe potuto essere scritto. La mia ostinazione nel volere il 16 ottobre, tra l’altro, incontrò una forte ostilità dei miei colleghi parlamentari. Perché metteva a nudo quella verità di cui parlavo prima: la Shoah è un delitto italiano, che può avvenire a pochi passi dal Vaticano, senza che nessuno, o quasi, dica nulla. Il 27 gennaio era più ecumenico. In The Holocaust in italian culture (tradotto da Bollati Boringhieri l’anno scorso con il titolo Scolpitelo nei cuori), Robert Gordon, docente di Modern italian culture a Cambridge, si occupa proprio del cammino della legge per il Giorno della Memoria in Italia. L’autore prende le mosse da un libretto che avevo pubblicato nel 1991 con l’Europeo, come primo esempio di lavoro in cui in Italia si afferma il diritto di Israele a esistere. Contemporaneamente – infuriava la Guerra del Golfo – Chiara Ingrao guidava colonne di manifestanti per la pace che bruciavano bandiere di Israele. In quel libretto spiegavo le ragioni per cui l’Italia non aveva mai voluto vedere le proprie responsabilità nell’Olocausto, che sono anche nel discorso della Loewenthal. Ma sono precedute di vent’anni dalla prefazione che feci a The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue and Survival (1987, Nebraska University press) di Susan Zuccotti, in cui parlavo del rovesciamento che si è verificato nella cultura italiana, che a lungo ha celebrato la Resistenza ignorando la Shoah.
SILVIA TRUZZI Secondo la Fondazione che gestisce l’ex lager di Auschwitz sempre meno ragazzi tedeschi visitano il campo di concentramento. Lo Stern ha riportato un sondaggio, realizzato nel 2012 fra giovani tedeschi tra i 18 e i 29 anni: uno su cinque non sapeva dire cosa fosse accaduto ad Auschwitz. Dieter Rossmann, responsabile dell’Istruzione per l’Spd, ha commentato: “Occorre mettere a confronto le giovani generazioni con il passato della Germania, affinché tali tragedie non si ripetano. La visita ad almeno un lager dovrebbe diventare obbligatoria”. Racconto questo perché ho grandi perplessità sulla sacralizzazione della Storia e ancor più sull’idea di una memoria obbligatoria . Ricordare non è di per sé un rimedio contro i mali futuri: i genocidi avvenuti nel mondo dopo l’Olocausto (in Bosnia, per esempio) ne sono una prova. Ma soprattutto ogni imposizione, così come ogni censura, trova il proprio antidoto: l’obbligatorietà della memoria può essere controproducente. Auschwitz è il toponimo dell’inverno della Storia, da solo è in grado di evocare l’intera operazione di sterminio nazista. Ho avuto occasione di visitare il lager con un gruppo di studenti, in occasione del 60esimo anniversario della Liberazione. Ricordo questo tour – veloce, freddo in ogni senso, al seguito di una guida frettolosa che faceva lo slalom tra cataste di capelli e foto dei prigionieri – con un certo disagio. C’erano, quel giorno, molti capi di Stato, dunque è probabile che fosse una circostanza particolare. Però ebbi la netta impressione che tutti quei riti appesantissero, in termini di retorica, il significato di quel momento. E creassero anche negli studenti una frustrazione per l’impossibilità, nel frastuono della cerimonia, di provare vera empatia rispetto al luogo dove si trovavano. È vera l’obiezione che avanza la Loewenthal, a proposito dell’eccesso di enfasi che sovraccarica il Giorno della Memoria.
FURIO COLOMBO L’educazione alla vita di persone giovani non ha ancora scoperto modi migliori che mostrare ciò che è accaduto prima di loro. Vedo i limiti che ci possono essere nella “gita” ad Auschwitz, anche perché per forza è una situazione di cameratismo scolastico. Però mi rendo conto anche della modestia degli altri strumenti: qualche buon film, qualche buon libro, ma pochissime possibilità di rendere evidente ciò che davvero è accaduto. Allora quelle visite sono un’approssimazione immensamente modesta del toccare con mano, ma se riuscissero anche solo un poco ad arginare il riflusso del negazionismo di fatto, sarebbe già un buon risultato. La pedagogia non ha tantissimi strumenti a disposizione. Se le approssimazioni sono nel segno di non permettere che si faccia finta di nulla, credo che vadano tenute in considerazione. Non credo che queste gite dovrebbero essere obbligatorie, ma non c’è nulla di obbligatorio nemmeno nel Giorno della Memoria, che è un’indicazione. L’obbligatorietà, nella vita scolastica, di per sé è una mannaia. Vorrei però ricordare che Primo Levi accompagnò e fece da guida a un gruppo di studenti italiani in un suo ritorno ad Auschwitz, che esiste ancora in un film.
SILVIA TRUZZI C’è un altro passaggio, in Contro il giorno della memoria, che merita attenzione. Cioè quando l’autrice parla della “rimozione del lato oscuro che stava dietro al lieto fine”. E spiega che “ancora negli Anni Settanta, la celebrazione della memoria aveva per oggetto quasi esclusivo la Resistenza”. Ma è una cosa che, stando alle memorie liceali, è andata avanti per molto tempo: rammento i discorsi del 25 aprile, che disegnavano immancabilmente l’8 settembre come il momento di una scelta collettiva, del “tutti in montagna” e l’Italia come un Paese altro, dove quasi nessuno era stato fascista. Finita la guerra, abbiamo semplicemente finto di averla vinta. Nel suo libro L’Italia del silenzio, Gianni Oliva riporta le parole di un grande storico liberale, Rosario Romeo: “La resistenza, opera di pochi, è stata usata da tanti per evitare di fare i conti con il proprio passato”. Senza contare che Una guerra civile di Claudio Pavone, esce nel ’91. Prima di allora l’espressione non esisteva, perché a lungo è stata proposta una rilettura del Ventennio in cui le responsabilità erano tutte del re e di Mussolini. Sempre Oliva fa notare che nei manuali scolastici si racconta di quando, nel ’31, Mussolini obbligò i professori universitari a giurare fedeltà al regime. Allora si ricordano i 12 che si rifiutarono di giurare, senza spiegare che i professori universitari quell’anno in Italia erano 1.848. Cioè a dire: i 12 non sono statisticamente rilevanti. Il revisionismo e la rimozione sono soprattutto serviti per avvalorare, con David Bidussa, il mito degli italiani brava gente. E a dimenticare che nel passaggio alla Repubblica, una larghissima parte della classe dirigente ha mantenuto il posto che ricopriva durante il Ventennio.
FURIO COLOMBO Abbiamo attribuito alla Resistenza il compito di esentarci dalla responsabilità dal Fascismo, perfino per coloro che alla Resistenza non avevano partecipato: la famosa “zona grigia” di cui parla Enzo Forcella. La mancanza di epurazioni è dipesa molto dall’amnistia Togliatti: un saggio atto di governo, un pessimo atto di transizione verso la democrazia. È stato un esorcismo, un tentativo di far passare gli italiani per un popolo buono, “brava gente” appunto, sempre e da subito dalla parte giusta. Nessuno sembrava ricordare con quanto meticoloso scrupolo i fascisti di Salò si sono dati da fare per scovare e consegnare ai tedeschi ogni singolo cittadino italiano ebreo. Come dimostra il Centro di documentazione ebraica di Milano, il numero d’italiani che hanno incassato cinquemila lire come premio per avere fornito informazioni che hanno portato all’arresto di concittadini ebrei, è molto alto. È vero che è accaduto il contrario, ma c’è anche questa verità. Bisogna poi ricordare che nel mezzo di una guerra che stravolgeva l’Europa, i treni diretti ai campi di sterminio partivano regolarmente, in orario. Magari qualche passeggero moriva, ma il viaggio non perdeva un vagone né una coincidenza. All’organizzazione perfetta dello sterminio ha contribuito anche l’Italia. È questo che mi ha fatto dire – portando avanti l’iniziativa di istituire un Giorno della Memoria per prima cosa che la Shoah è un delitto anche italiano. Benché ci siamo abituati, forse anche per disprezzo verso il regime di Mussolini, a presentare l’Italia come l’alleato straccione dei nazisti, resta il fatto che l’Italia era l’altra grande potenza: sconfitta la Francia, assediata l’Inghilterra e occupato tutto il resto tranne la Svezia, l’Italia era l’altra potenza dell’Asse. Senza la partecipazione italiana – formale: le leggi razziali introdotte nel 1939, e materiale: gli arresti – la persecuzione contro gli ebrei non sarebbe potuta avvenire. Ci si poteva ribellare ai tedeschi? Lo dimostra l’esempio bulgaro. Il Re bulgaro era un Savoia – questo invece dimostra la capacità egemonica di quell’Italia stracciona – e le leggi razziali italiane furono mandate, per essere adottate, al Parlamento bulgaro. Il presidente del Parlamento ha immediatamente dichiarato: non faremo mai una cose del genere ai cittadini ebrei bulgari. Questo ci dice che avrebbe potuto non esserci una simbiosi di necessità tra Fascismo e razzismo: c’è stata per volontà del regime italiano.

CONTRO IL GIORNO DELLA MEMORIA, E. Loewenthal, Add; pagg. 93 10 euro
SCOLPITELO NEI CUORI, R.Gordon, Bollati Boringhieri; 370 pagg, 27 euro

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