L’ultimo degli ingiusti ha trattato col diavolo. Era un ebreo e per sette anni ha avuto rapporti con Eichmann sterminatore degli ebrei. Era un personaggio non comune. Il suo nome era Benjamin Murmelstein. Rabbino, grande studioso della mitologia, colto, superintelligente, ironico, divertente, luminoso. Così me lo descrive Claude Lanzmann, che incontro nel suo appartamento, vicino al cimitero di Montparnasse.
L’ultimo degli ingiusti ha trattato col diavolo. Era un ebreo e per sette anni ha avuto rapporti con Eichmann sterminatore degli ebrei. Era un personaggio non comune. Il suo nome era Benjamin Murmelstein. Rabbino, grande studioso della mitologia, colto, superintelligente, ironico, divertente, luminoso. Così me lo descrive Claude Lanzmann, che incontro nel suo appartamento, vicino al cimitero di Montparnasse.
Lui, Lanzmann, l’autore del film destinato a durare come la grande opera sul massacro degli ebrei, difende Murmelstein, non lo giudica come altri un rinnegato, lo considera un uomo sincero che ha salvato decine di migliaia di ebrei. Centoventimila in Austria. Alla domanda se collaborare col diavolo non ponga un problema morale, Lanzmann risponde che dipende dalle circostanze e dagli uomini: e Murmelstein era di una perfetta onestà, era astuto, inventivo, coraggioso, si può dire eroico. Questo è il giudizio dominante nel suo film (sta una questione scottante: la capacità dell’uomo di agire secondo quel che ritiene il suo dovere, la sua etica, al di là delle evidenti e insidiose contraddizioni, anche filosofiche. In concreto, si doveva accettare o ci si poteva piegare perché costretti al non nobile ruolo di guardiano di un campo nazista, e poi tentare di alleviare la sofferenza delle vittime.
Tanti sono i giudizi opposti a quelli di Lanzmann. Nel mezzo degli anni Ottanta, quando Benjamin Murmelstein morì, il grande rabbino rifiutò di recitare la preghiera per i defunti, e gli negò la sepoltura accanto alla moglie nel cimitero ebraico di Roma. Né in vita gli è stato riconosciuto il diritto all’aliya, cioè quello di emigrare nello Stato di Israele, riservato a tutti gli ebrei. Lo storico e filosofo Gershom Scholem voleva che venisse impiccato. Claude Lanzmann, storico della tragedia del suo popolo, invece lo riabilita.
Per lui l’ultimo degli ingiusti era in verità un giusto. Crede nell’innocenza di Benjamin Murmelstein, il reietto, rifiutato dai suoi. Ne fa un ritratto rispettoso nel suo film—romanzo, sfidando la condanna abbattutasi sui Consigli ebraici ( judenrat) ritenuti collaboratori dei nazisti, di cui Benjamin Murmelstein faceva parte, e di cui è stato il presidente a Theresienstadt.
Claude Lanzmann ha uno scatto di collera quando definisco documentario le tre ore e quaranta minuti di immagini che raccontano la vicenda di Murmelstein, mostrano un lungo colloquio con lui, e riesumano Theresienstadt, il ghetto cecoslovacco dove lui operò negli ultimi mesi. Non gli va che si consideri la sua opera un documento. Il suo è un film autentico. Un grande film. È vero. Ha ragione. Mi mostra con orgoglio la lettera di complimenti scrittagli da Steven Spielberg — «…il tuo film mi ha tolto il respiro…» — con cui si era scontrato ai tempi di Schindler’s List.
Quello di Lanzmann è un grande film e un terribile romanzo di una realtà da svelare, da capire, contro tutti i pregiudizi. Per Lanzmann non ci sono stati collaborazionisti ebrei per motivi ideologici, ma soltanto perché obbligati a esserlo. Con intelligenza, e anche con furbizia e audacia, nella sua posizione di «decano degli ebrei», come veniva chiamato in quanto mediatore tra carnefici e vittime, Murmelstein ha cercato, appunto, di alleviare la tragedia, nei limiti della sua condizione. Con l’autorità di storico della Shoah, Lanzmann gli riconosce questo merito, che altri ancora gli negano, continuando a considerarlo un “ingiusto”, un essere iniquo.
L’uomo è gonfio in viso. È marcato dalle nevrosi. Ma sa essere ironico. Acuto. A volte tenero. Vulnerabile. È nel 1975 che Claude Lanzmann filma il lungo colloquio con Murmelstein su una terrazza affacciata sui tetti di Roma, dove vive quasi nella miseria. Ma l’ha già incontrato prima, nel ’73, all’Hotel Nazionale. Non è stato facile far parlare quel personaggio braccato dai severi giudizi dei suoi. Chiedo a Lanzmann perché abbia tardato tanto a rendere pubblica la lunga intervista e a prendere posizione in favore di quell'”ingiusto”, escluso dalla comunità. La risposta è che
Shoah (1985) era un film epico, il cui tema era la morte, e non poteva integrare la fragile figura di Murmelstein, personaggio tutt’altro che epico. Per Isaac Bashevis Singer, nei campi nazisti c’erano dei martiri e i martiri non sono sempre santi. Le vittime avevano tanti ruoli e innumerevoli comportamenti.
Il campo di Terezin (Theresienstadt in tedesco) è a una cinquantina di chilometri da Praga. Era una caserma per sei-settemila soldati in cui sono stati poi rinchiusi almeno cinquantamila ebrei alla volta, e in cui ne sono passati almeno centoquarantamila dal novembre del 1941 alla primavera del 1945. Era un campo-ghetto famoso perché un film di propaganda nazista dal titolo Il Führer regala un villaggio agli ebrei mostrava una città esemplare, quasi da villeggiatura, dove c’erano cinema, palestre, sale da gioco e da conferenza, e dove gli abitanti potevano stampare giornali, disegnare e dipingere, e persino prendere il sole quando appariva nel grigio cielo mitteleuropeo. Erano immagini che dovevano far credere ai deportati che a Est, dove erano diretti, li attendeva una vita piacevole, e al mondo che i tedeschi trattavano con generosità gli ebrei strappati alle loro case. Nel giugno ’44 un inviato del Comitato internazionale della Croce Rossa visitò quel luogo “idilliaco” senza accorgersi che dietro le facciate gli abitanti con la stella gialla morivano di stenti e di maltrattamenti, e molti di loro erano diretti in campi di sterminio come Auschwitz.
Tre rabbini, «decani degli ebrei», si sono succeduti alla direzione del ghetto modello. Erano ovviamente designati dai nazisti e nel quadro dei Consigli ebraici avevano il compito di organizzare la comunità nei limiti consentiti. I due rabbini che hanno preceduto Benjamin Murmelstein hanno conosciuto una fine brutale. Jacob Edelstein fu arrestato nel ’43 e deportato a Auschwitz e là assassinato; Paul Eppstein fu ucciso con un colpo alla nuca il 27 settembre ’44 a Theresienstadt. Ed è allora che Murmelstein ha assunto l’incarico e si è rivelato il più abile. È sopravvissuto fino alla liberazione, quando pur possedendo un passaporto della Croce Rossa non è fuggito, anzi ha atteso di essere giudicato, dopo un anno di prigione, da un tribunale cecoslovacco. Il quale lo ha assolto dalle accuse dei reduci di Theresienstadt che lo indicavano come un solerte collaboratore dei nazisti e responsabile di avere contribuito a compilare le liste di chi doveva essere trasferito in altri campi dove la morte era sicura. Anche se lui non lo sapeva.
Nel 1961 Murmelstein ha scritto in italiano un libro (Terezin, il ghetto modello di Eichmann, ripubblicato lo scorso anno dalla casa editrice La Scuola) nel quale si difende dalle accuse: ha salvato molte vite consentendo agli ebrei austriaci di emigrare in Inghilterra, in Spagna, in Portogallo; ha prolungato l’esistenza di Therensienstadt, dove poteva agire per migliorare la vita dei prigionieri; non ha fatto liste per deportare la gente in campi della morte; e si dilunga nel dimostrare la buona fede nel cercare di rendere l’esistenza dei deportati meno terribile di quel che sarebbe stata senza di lui. Si riteneva inoltre depositario di una missione: raccontare le giornate nel ghetto (come accade in Mille e una notte) per farne conoscere le abiezioni.
Murmelstein non manca di humor. La paura l’ha accompagnato per sette anni, dal 1938, anno dell’invasione nazista dell’Austria, dove viveva, fino al 1945. Ma non doveva mostrarla, e dunque cercava di vivere quella situazione con spirito d’avventura. La conoscenza di Eichmann, a Vienna, subito dopo l’Anschluss, aveva fatto di lui una specie di “re degli ebrei”, cosi lo chiamavano per scherno, ma anche con una certa considerazione, alcuni tedeschi.
Murmelstein insegna a Eichmann la storia dell’emigrazione ebraica e il singolare allievo gli dimostra riconoscenza. Ad esempio lo fa sedere al suo stesso tavolo. Ordina addirittura a un Ss di portargli una seggiola. Fatto eccezionale perché un ebreo doveva stare in piedi immobile, sull’attenti. Quell’episodio della seggiola conterà ancora dopo anni. L’Ss che l’aveva portata a Murmelstein per ordine di Eichmann diventerà il responsabile di Theresienstadt nel ’44 e non dimenticherà che quell’ebreo doveva essere trattato con riguardo, se a Vienna aveva potuto sedersi al tavolo del suo superiore. Murmelstein ironizza su quel tremendo e grottesco passato. La sua nomina a presidente del Consiglio ebraico fu in parte dovuta a quella seggiola.
Il suo rapporto con Eichmann l’ha favorito ma ha creato attorno a lui anche la forte diffidenza dei deportati. Li faceva lavorare per settanta ore la settimana al fine di mantenere pulito il campo ed evitare le epidemie. Riconosce di essere stato odiato. Doveva far evacuare chi aveva malattie contagiose, e la destinazione era facilmente immaginabile. Era conosciuto come un personaggio malvagio e pronto ad alzare la voce per farsi ubbidire. Ma lui si considerava «un chirurgo che non doveva piangere sul paziente». Il suo compito era quello di Sancho Panza, che apre gli occhi a Don Chisciotte. Bisognava agire tenendo conto della cruda realtà, quindi anche prostituirsi per rendere migliore la vita a Theresienstadt. Dietro le lenti da miope traspare il tragico sguardo di chi ha dovuto amministrare l’orrore organizzato dai nazisti e si trincera dietro una malizia a tratti macabra.
Quella di Lanzmann non è soltanto l’assoluzione elargita con generosità a un uomo condannato dalla propria comunità. Non è l’audace riclassamento di un parìa. È un viaggio nel cuore di tenebra, dove ci si imbatte anche nelle «selvagge contraddizioni» di Murmelstein. Quando lavorava per realizzare il lungo film sulla Shoah, Lanzmann si è reso conto, dice lui stesso, che la questione dei Consigli ebraici non poteva essere trascurata. Gli uomini che ne facevano parte erano per lui accusati ingiustamente di collaborazionismo. Quando seppe che Leib Garfunkel, numero due del consiglio di Koyno (un campo che Murmelstein contribuì a organizzare) stava per morire, Lanzmann corse a Gerusalemme. Scoprì un personaggio «adorable», ma ormai agonizzante. La sua voce era fioca, incomprensibile. E allora ha inseguito Murmelstein a Roma.
L’azione di Lanzmann, e in particolare adesso il suo film L’ultimo degli ingiusti, è in aperta polemica con Hannah Arendt. La filosofa tedesco-americana ha scritto nel 1961, durante il processo di Eichmann, che il criminale nazista rappresentava «la banalità del male». Rifacendosi alla testimonianza di Murmelstein, Lanzmann definisce vergognose le parole di Hannah Arendt. Al contrario di quel che afferma, Eichmann non era un uomo qualsiasi, un funzionario ubbidiente, e quindi un personaggio banale. Murmelstein lo conosceva bene e lo giudicava un demone e un corrotto, responsabile delle proprie azioni. Nella Notte dei Cristalli, a Vienna (10 novembre 1938), pistola alla mano dirigeva l’operazione contro gli ebrei e i loro beni. Quel giorno Murmelstein lo vide di persona. Hannah Arendt considerò in tutti i modi giusta l’esecuzione di quel personaggio che riteneva banale. Ma a lei non viene perdonato neppure l’accusa rivolta ai Consigli ebraici di avere favorito la soluzione finale collaborando con i nazisti. La testimonianza di Murmelstein è, per Lanzmann, la prova del contrario. A suo modo anche lui fu una vittima.
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