“Noi, prigionieri anche senza sbarre” A Mineo, dove l’asilo è un miraggio

 Il villaggio a 5 stelle dei profughi: anche qui proteste e suicidi Il reportage
 Il villaggio a 5 stelle dei profughi: anche qui proteste e suicidi Il reportage

MINEO — «Why not, why». Louis grida con tutto il fiato che ha in corpo, gli occhi iniettati di sangue per spiegare perché due giorni fa ha sfogato tutta la sua rabbia tirando pietre contro i poliziotti che vigilavano sull’ennesima manifestazione di protesta, in strada, a bloccare il traffico sulla superstrada Catania-Gela. Un viaggio durato oltre un anno, quello di Louis, dal Ghana lungo il deserto fino alla Libia, la fame, la sete, le vessazioni dei trafficanti di uomini, poi la traversata del Canale di Sicilia e ora, dopo un anno e due mesi di infinita attesa dell’asilo politico, il “no”, per lui incomprensibile, della commissione chiamata a valutare le richieste di migliaia di profughi.
Mineo, Piana di Catania, tra gli agrumeti che sconfinano verso Caltagirone. È qui la “città” dei richiedenti asilo. Nel villaggio degli Aranci, fino a tre anni fa abitato dalle famiglie degli ufficiali americani di stanza alla base militare di Sigonella, oggi vivono 3758 persone, di 15 etnie diverse. Una convivenza difficilissima, soprattutto se la “resistenza” psicologica di questi profughi, quasi tutti arrivati qui fuggendo a guerre, persecuzioni politiche o religiose, è minata da una attesa infinita. Secondo la legge, chi arriva qui non dovrebbe attendere più di 35 giorni prima di sapere se lo status di rifugiato sarà concesso o meno, ma chi entra al Cara di Mineo, il più grande d’Europa, non esce prima di un anno. Una sola commissione
per Catania e Siracusa, composta da quattro membri (in rappresentanza di prefettura, questura, enti locali e Unhcr), è chiamata a decidere sul destino di questa gente, a studiare i loro fascicoli, ad ascoltarli, a ricostruire le loro storie prima del verdetto. Che dovrebbe arrivare entro tre giorni e che invece si fa attendere spesso molto più a lungo. Alla fine, in un anno, la commissione non riesce ad evadere più di 2500 “pratiche”, poco più della metà dei migranti che, nel frattempo, vengono stipati nelle villette a schiera del Villaggio degli Aranci con un esplosivo mix di razze, etnie e religioni che spesso innesca una miscela esplosiva.
La settimana scorsa un giovane eritreo di 21 anni ha preso la cintura dei pantaloni, l’ha appesa ad un gancio in una delle stanze del centro e si è impiccato. Era lì da sette mesi, ma non riusciva più a sopportare il peso dell’incertezza del futuro. «Quel ragazzo – dice don Mussie Zerai, sacerdote eritreo punto di riferimento dei profughi in Italia – è rimasto vittima di un sistema di accoglienza incapace di rispettare la dignità della persona e di offrire un futuro che non sia quello di essere gettati per strada come un rifiuto. Voleva andare a vivere dalle sue sorelle, in Germania, dove poteva essere supportato e accompagnato da loro per ricominciare a vivere, dopo le traversie della fuga e dell’esilio, ma gli accordi europei glielo hanno impedito, hanno ucciso il suo sogno».
Quando lo inaugurarono, nella primavera del 2011, al tempo dell’emergenza Nordafrica, le immagini di quelle villette a schiera bifamiliari, i campi sportivi, il piccolo ospedale, la mensa, la scuola per imparare l’italiano, l’asilo per i più piccoli, fecero il giro del mondo. «Inauguriamo
un modello di solidarietà ed accoglienza che ci invidiano in tutto il mondo», disse l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a Mineo insieme a Maroni, ministro dell’Interno, il “creatore” del Cara. Si temeva addirittura che le immagini di quel “villaggio a cinque stelle” trasmesse in tv potessero addirittura attirare dal Nordafrica migliaia di persone invogliate da un “lusso” che non avevano mai visto. Ma non è andata così e ben presto il Cara di Mineo si è trasformato in una piccola città sovraffollata, in cui abusi e violenze sono all’ordine del giorno, con intere famiglie “deportate” qui da altre piccole realtà in cui si erano ormai inserite.
E soprattutto Mineo si è rivelato un grande business, tanto che, al cessare dei fondi per l’emergenza Nordafrica, quegli stessi Comuni confinanti che per i primi mesi protestavano per le scorrerie dei migranti che facevano razzia nelle aziende agricole e mettevano a rischio la sicurezza dei cittadini, hanno deciso di costituire un consorzio per partecipare alla gestione di una vera e propria azienda di servizi all’immigrazione. Il “Consorzio Calatino Terre di accoglienza’ incassa circa 50 milioni di euro all’anno. E anima del Consorzio è Sisifo, di Legacoop, che si è appena visto rescindere dal Viminale il contratto per il centro di Lampedusa dopo lo scandalo del trattamento antiscabbia.

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