TORINO 1980, DOVE FINàŒ LA DEMOCRAZIA OPERAIA. Trent’anni fa i «35 giorni alla Fiat». In questo brano tratto dalla nuova edizione di «Restaurazione italiana», l’ultima assemblea del «Consiglione» di Mirafiori. Nello scontro tra i delegati e i vertici sindacali, che avevano appena firmato l’atto di resa alla Fiat, uno straordinario episodio di preveggenza collettiva sul futuro di quella fabbrica, dei lavoratori e del sindacato. Con un livello di partecipazione politica e umana che non avrà più uguali
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Torino, cinema Smeraldo, pomeriggio del 15 ottobre 1980: la scena è quella dell’atto finale. La sala è gremita di operai. È l’assemblea del Consiglione Fiat, quel migliaio di delegati torinesiche per un decennio hanno governato gli stabilimenti, che per 35 giorni hanno trasformato i cancelli di Mirafiori in una trincea in difesa del loro potere e della loro storia. Per la Fiat l’ostacolo da abbattere, il nemico da mettere in rotta riconquistando il dominio sul lavoro; per il sindacato la base della propria forza in fabbrica, ma anche un corpo difficile da governare. (…)
I tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil sono arrivati a Torino in tarda mattinata. Hanno dormito poche ore dopo la firma al ministero. Quando entrano in una sala calda e umida, strapiena di lavoratori, hanno il volto di chi si sottopone a un atto dovuto quanto inutile, badano più a rispondere alla domande dei tanti giornalisti accalcati all’ingresso che affrettarsi al palco per iniziare il confronto: quanta invidia, in queste ore, per la controparte, lasciata tranquilla a riposare, che non deve fare riunioni e assemblee, cui basta una telefonata alla proprietà per contemplare il perfetto combaciare dell’esito finale con gli obiettivi iniziali. Sanno, Lama, Carniti, Benvenuto e gli altri, che quell’assemblea sarà infuocata, ma, almeno, hanno la certezza che non sposterà di una virgola quanto deciso la notte prima; come le assemblee di stabilimento del giorno dopo. Tutto è già stabilito. Si tratta solo di adempiere a un faticoso rituale; forse l’ultimo. Di quel pomeriggio Luciano Lama, alcuni anni dopo, vorrà ricordare un solo episodio: «una ragazza e un ragazzo, due giovani operai seduti di fronte al palco, immersi in lunghi baci, quasi indifferenti a tutto ciò che accade intorno». Nella memoria del dirigente sindacale quell’assemblea non valeva nulla come se quei delegati e quegli operai non vivessero alcun dramma, erano incomprensibili: persone qualsiasi, non «classe operaia», quindi inevitabilmente perduti.
L’assemblea comincia a stento. (…) Rocco Papandrea lavora a Mirafiori dal 10 maggio del 1969 (giorno del primo corteo interno, vera data d’inizio dell’autunno caldo alla Fiat), non è nell’elenco dei cassintegrati, ma spiega subito che quella «è una lista di proscrizione». E mette il dito nella piaga, la sorte dell’organizzazione sindacale dei delegati che viene smantellata: «L’elenco è stato fatto su basi discriminatorie. Molti delegati messi fuori, oppure delegati rimasti soli in mezzo a squadre desertificate, con l’espulsione di decine di compagni che sono la nostra forza. Per questo abbiamo detto no alla Cig a zero ore. Perché il gioco è questo: se passa la cassa integrazione per quei 23.000, magari fra qualche anno qualcuno tornerà , però troverà un’altra fabbrica, un’altra Fiat». La rivoluzione dall’alto di corso Marconi distrugge la struttura del gruppo omogeneo, scardina un assetto di rappresentanza d’interessi che per dodici anni ha fatto del delegato il punto di riferimento dei suoi compagni di lavoro nella condivisione della condizione quotidiana e nell’aspirazione al suo controllo. Un delegato senza la sua squadra è impotente, una squadra senza il suo delegato è cieca. È il senso della stagione del sindacato dei consigli che viene gettato alle ortiche.
«Sommersi e salvati»
Nella platea affollata, intrisa di rabbia e stanchezza, in un umido calore che sfoga urla e slogan, la pensano tutti così. O quasi. Fanno eccezione alcuni militanti del Pci. Per loro l’appartenenza politica prevale su quella alla «comunità operaia»: voci isolate nel Consiglione, ma molto pesanti negli apparati, che si levano a difesa dell’accordo – in nome della logica del meno peggio – in ossequio all’indicazione della federazione torinese del partito, cui Piero Fassino ha impartito l’ordine di «far passare l’accordo a tutti i costi». Il primo a riassumere questo «dover essere» è un delegato delle meccaniche, Farano. Per dire che quell’intesa è quasi un successo, perché i licenziamenti non ci sono più, perché se «la Fiat riesce a organizzare 20.000 capi in un corteo vuol dire che stare dalla parte della ragione non basta», perché «per tener fuori la gente abbiamo dovuto organizzare i picchetti». Banalità anche sensate, per sancire che non c’è più benzina, che ci si deve fermare, anche se – ammette in un rovesciamento schizofrenico – quell’intesa «è piena di ombre e molti punti devono essere rivisti». C’è in questa posizione la convinzione che, una volta passata la tempesta, il sindacato e il partito possano ancora riprendere in mano la situazione, persino che – cacciati gli irriducibili – riescano a gestire meglio la vita in fabbrica, a contrattare con più efficacia perché guidati dalla «scienza» politica.
Non sarà così e Pasquale Inglisano, delegato delle carrozzerie, lo dice a chiare lettere: «Non si possono vendere botti vuote, bisogna avere il coraggio di dire che cosa ci aspetta». (…). Liberato Norcia, delle carrozzerie di Mirafiori, vuole almeno ricordare a questi dirigenti qual è stato per più di un decennio il senso di un rapporto che oggi si spezza: «Erano dodici anni che aspettavo questo momento, che ci fossero tutti qui i dirigenti, che ci fossero Lama, Carniti, Benvenuto, per dir loro che ogni mattina, quando entra in fabbrica alle sei, il delegato oltre a portare con sé i suoi problemi, a misurarsi con i problemi degli altri delegati, degli altri lavoratori, a scontrarsi con il lavoro e con il padrone, alla fine deve anche sopportare le malefatte dei suoi dirigenti sindacali… È vero che il delegato è una parte nevralgica dell’organizzazione sindacale, ma è altrettanto vero che voi potete fare le trattative perché nella fabbrica ci sono delegati come me che vi danno la forza per farlo. Ed è anche vero che i delegati contano perché ci sono compagni che ci danno forza all’interno della fabbrica». (…)
Denunce e discorsi ormai vani, quelli dei delegati dello Smeraldo: quando interviene Fausto Bertinotti, segretario regionale della Cgil – uno dei dirigenti a opporsi fino all’ultimo alla cassa integrazione a zero ore – si capisce che non c’è più alcun margine di ripensamento, che la strada è segnata. Fuori dal cinema la sera è arrivata veloce e il buio circonda i gruppetti di giornalisti in attesa; dentro si spegne la luce sulla vita del Consiglione. L’intervento di Bertinotti è uno sforzo di dover essere, per dire cose che probabilmente non pensa, quelle imposte dalla funzione ricoperta, dal dovere di trovare un senso al domani, al di là dei disastri dell’oggi: un continuo richiamo a ritrovare un agire unitario, a evitare la rissa, a preservare il «corpo» dell’organizzazione, se proprio la sua anima non può essere salvata. (…) L’intesa subita nella notte diventa «l’unico compromesso possibile» e l’arretramento dei 23.000 cassintegrati viene compensato dal ritiro dei licenziamenti e dalle promesse di reintegro. Insomma, la Fiat sta vincendo, ma non stravince, i giochi non sono chiusi e anche Bertinotti non usa mai la parola maledetta, non parla mai di «sconfitta». Anni dopo dirà che quell’intervento è l’unico atto sindacale della sua vita di cui sente il dovere di pentirsi.
Poi tocca a Bruno Trentin portare le sue ragioni a difesa dell’accordo; o, meglio, a spiegarne ancora una volta l’inevitabilità , «perché – dice – rappresenta esattamente il rapporto di forza che abbiamo costruito alla Fiat, nel paese, tra i lavoratori della Fiat, fra i lavoratori italiani e sul piano politico». Un lungo e argomentato intervento, quello del segretario nazionale della Cgil (che gli operai di Torino considerano ancora il leader dei metalmeccanici degli anni Settanta), svolto nel silenzio generale, con il timoroso rispetto che incute il personaggio a spegnere sul nascere fischi e contestazioni. Un lungo richiamo, il suo, alle responsabilità di un gruppo dirigente che deve avere la capacità di ragionare guardando le cose da lontano, che deve evitare in primo luogo le lacerazioni, che sono il «pericolo maggiore» per il futuro del movimento operaio. Perché, crede Trentin, c’è sempre un domani da gestire. Un domani su cui peseranno gli obiettivi su cui «non siamo passati», la mancata rotazione della cassa integrazione, l’incertezza sul rientro in fabbrica a tempi brevi. Ma se è stato così – argomenta il dirigente sindacale – è perché hanno pesato le divisioni tra i lavoratori, l’incapacità del movimento di allargare il proprio consenso, l’uso che la Fiat ha fatto di tali divisioni. (…)
A futura memoria
Il quadro è ormai chiaro, i giochi sono davvero fatti: parlano ancora alcuni delegati, parlano i militanti del Pci in difesa dell’accordo, rinfrancati dai ragionamenti di Trentin, parla – tra mille contestazioni – Bentivogli, segretario generale dell’Flm, perché non ci siano dubbi sulla determinazione a chiudere dei vertici sindacali, per non lasciare spazio a ripensamenti. Ma il confronto – se mai c’è stato – è già finito. L’assemblea no: c’è ancora spazio per l’ultimo messaggio, per il testamento politico del Consiglione e di quella generazione operaia. Il compito dell’ultimo «urlo» se lo assume Giovanni Falcone, delegato delle carrozzerie, trapiantato dal sud a Torino, entrato alla Fiat nel maggio ’68, nei giorni in cui le università d’Europa cambiavano volto, alla vigilia di una stagione che avrebbe mutato la faccia e il cuore delle fabbriche, il corpo dell’intera società . Il suo intervento è un capitolo di storia, aperta dall’ingresso nella grande fabbrica di un giovane senza politica, che non sa nemmeno cosa sia il sindacato, e chiuso dalla cacciata di un uomo che in quel luogo ha scoperto il senso dell’agire collettivo, il concetto di solidarietà , si è formato una visione del mondo. Cambiando e crescendo. Una storia che si conclude in un cinema di periferia.
Falcone sa bene che non rientrerà più in quella fabbrica che considera quasi un’università di vita, che vedrà perdersi i suoi compagni, che nulla sarà come prima. Sa di essere capitato nel mezzo di uno snodo della storia. E lo dichiara subito: «Un compagno prima mi diceva: ‘questo è un fatto storico, un altro compagno come noi aveva parlato nel ’69, oggi parli tu e si chiude un’epoca’. Allora si apriva, ora si chiude». Nel giorno dell’addio il protagonismo operaio in fabbrica appare come un intermezzo – raro e intenso – da ripercorrere per rivendicare: «Per me – continua Falcone – questi dodici anni di lotte sono stati una lunga esperienza politica. Lo è stata per tutti noi. Ci pensate? Un emigrante che viene su, dalla campagna, come tanti altri. Non sapevo dire una parola, tanta timidezza e, poi… mettersi a fare dei discorsi politici… Voi pensate che la Fiat possa ancora tenere uno come me in fabbrica?» Nelle parole di Falcone si specchia tutta una generazione operaia che ha vissuto la fabbrica come il luogo di un’identità che, più che sul lavoro, si fonda sulla condizione, sul conflitto e sulla solidarietà che da lì nasce. Una comunità che la resa dei 35 giorni sfalda per sempre, il vero obiettivo da colpire per l’azienda, assieme agli invalidi e alle donne: «deboli» e «forti» uniti dallo stesso destino. (…) È quell’anomalia, nata nel ’69, che corso Marconi ha deciso di cancellare, eliminandone i protagonisti, quei «dirigenti» di linea, officina, reparto, fortemente radicati nel corpo della fabbrica che avevano imposto un diverso modo di vita e di lavoro. Da domani questo corpo sarà smembrato e Falcone sa bene che «passeranno anni prima che la lotta alla Fiat torni a essere possibile». È la coscienza di una sconfitta pesante, ma che non getta alcuna ombra sul proprio patrimonio, su una straordinaria esperienza da rivendicare fino in fondo. E, così, a Marianetti che si lamenta della lunghezza dell’intervento e gli chiede di concludere, Falcone ribatte: «Non ti preoccupare compagno, ne ho anche il diritto. Dopo dodici anni mi cacciano fuori, concedetemi almeno di parlare. Perché io credo che questa possibilità come delegato Fiat, come operaio Fiat, non ce l’avrò mai più. Almeno ho la soddisfazione di aver chiuso in bellezza e sono contento di tutte le lotte che ho fatto, al di là che il padrone non mi riprende più». L’assemblea dello Smeraldo finisce lì. E con essa il Consiglio di fabbrica.
*** tratto da «Restaurazione italiana», di Gabriele Polo e Claudio Sabattini (Seconda edizione, L’Ancora del Mediterraneo, 2010, euro 17,50)
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