1870 Da «la Conquista», la storia del manifesto
1870 Da «la Conquista», la storia del manifesto
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Dopo la proclamazione del Regno d’Italia (marzo 1861) tutta la politica italiana gravitò attorno alla cosiddetta «questione romana», cioè dai rapporti tra Stato e Chiesa in un paese da sempre sede del potere temporale dei papi. Il problema di «Roma capitale» fu il centro della politica estera e interna del nuovo regno (assieme alla repressione del brigantaggio meridionale) e, al tempo stesso, costituì l’asse attorno al quale si determinò l’impronta culturale-religiosa dello stato unitario. La «questione romana» era centrale sia per la sua rilevanza internazionale (assumendosi il ruolo di garante dell’integrità politica dello stato pontificio, la Francia esercitava la propria egemonia sulla penisola italiana), sia per i risvolti etici che assumeva nel contrasto tra l’anticlericarismo e il moderatismo, tra chi propendeva per una drastica soluzione militare del problema e chi – sulle orme della teoria di Cavour riassunta nello slogan «libera chiesa in libero stato» – pensava a una soluzione concordata del conflitto che opponeva lo stato italiano al papato. Fu così che attorno alla rivendicazione di «Roma capitale» si definirono gli schieramenti politici dei primi governi unitari. Da sinistra il Partito d’Azione insisteva per un’azione diretta a base popolare (con lo slogan «Roma o morte») che portasse a termine il processo d’unità nazionale, tentando di riconquistare così parte dell’influenza che aveva perduto, a favore della destra moderata, quando il processo unitario era stato ridotto a un fatto prevalentemente militare e diplomatico, sottratto – nella sua direzione – all’iniziativa popolare rappresentata da uomini come Garibaldi. Sul piano internazionale, i rapporti con Napoleone III stavano progressivamente peggiorando e la presenza delle truppe francesi a Roma veniva vissuta con fastidio da tutto il mondo politico italiano e vista come un’ingerenza nella politica interna del nuovo regno. Venne così prendendo piede un’opinione comunemente tesa a considerare Roma la naturale capitale d’Italia. Tuttavia, mentre i radicali tentarono di dar seguito alle proprie convinzioni con le spedizioni militari comandate da Garibaldi, la destra al governo sottomise la propria azione ai rapporti internazionali e attese la caduta di Napoleone III per spedire le proprie truppe a occupare Roma, nel settembre del 1870. Fino ad allora i governi di destra seguirono una politica di attesa e contribuirono a bloccare i tentativi garibaldini, con un proprio intervento diretto (in Aspromonte nel 1862) o delegando la difesa di Roma papalina ai francesi (a Mentana nel 1867). In entrambi i casi Garibaldi fu sconfitto, arrestato e isolato nella sua Caprera, ponendo fine alle iniziative radicali. Ma l’invio delle truppe contro Garibaldi non significava la rinuncia definitiva a Roma; anzi, la destra italiana, in quegli anni, fece proprio l’obiettivo di «Roma capitale» e assunse una posizione sempre più spiccatamente anticlericale. La decisione di rinviare la conquista di Roma al momento più opportuno rilevava, invece, quanto debole e condizionata sul piano internazionale fosse l’Italia unitaria.
Nel 1864, era stata firmata una convenzione con la Francia in cui il governo italiano s’impegnava a rispettare e difendere l’integrità dello stato pontificio in cambio del ritiro delle truppe francesi da Roma; contemporanemente la capitale del Regno veniva spostata da Torino a Firenze, dando così l’impressione di un’implicita rinuncia a Roma. Ma, allo stesso tempo, la destra storica assumeva una posizione sempre più ostile alla Chiesa, eliminando gran parte dei privilegi economici del clero e decretando il passaggio al demanio pubblico dei beni mobili degli ecclesiastici. La drastica abolizione di buona parte dei privilegi del clero (per le esigenze di un bilancio statale in perenne difficoltà, che i governi di destra non intendevano sanare con le imposte dirette sui redditi) esasperò i rapporti tra Stato e Chiesa, cambiando i rapporti sociali nelle campagne. I decreti anti-ecclesistici favorirono il diffondersi della proprietà terriera borghese (legando sempre di più questi ceti ai destini dello stato unitario), rompendo antichi equilibri esistenti nelle campagne italiane e allontanarono ulteriormente le masse contadine dallo stato liberale. Si consolidarono così i legami tra la Chiesa e le famiglie contadine – in particolare sull’assistenza e l’istruzione – mentre lo stato assumeva sempre di più un’immagine anticlericale dietro il quale si celava il suo carattere di classe.
Da parte sua anche la Chiesa reagì all’iniziativa dello stato italiano compattandosi e serrando le fila. Venne riorganizzata tutta la gerarchia, promuovendo una nuova leva di vescovi più osservanti delle direttive pontificie, ma, soprattutto, si accentuò la natura dogmatica della religione con la pubblicazione del Sillabo (1864) in cui si elencavano e condannavano gli errori del liberalismo e del socialismo e con il Concilio Vaticano I (1870) in cui veniva ribadita rigidamente «l’infallibilità del papa». Il «non expedit» (il divieto per i cattolici a partecipare alla vita politica italiana) varato dopo l’annessione di Roma allo stato italiano, fu la logica conseguenza di una frattura sempre più marcata: l’intransigenza della Santa Sede pesò sulla già ristretta classe dirigente del nuovo Regno come un ulteriore elemento d’isolamento dalla società italiana e il clima non cambiò con le concessioni fatte nella legge sulle Guarentige (extraterritorialità del Vaticano, del Laterano e di Castel Gandolfo, riconoscimento di un appannaggio annuale in denaro al papa che veniva considerato come un capo di stato) che avrebbero regolato i rapporti tra Chiesa e Stato fino ai patti Lateranensi del 1929.
Al di là delle consueguenze diplomatiche, il modo in cui la classe dirigente liberale risolse la «questione romana» rivelò i grandi limiti della «rivoluzione borghese» italiana nell’incapacità dello stato liberale di sottrarre all’egemonia clericale le masse contadine, con la conseguenza che la Chiesa, proprio dopo la fine del suo potere temporale, rafforzava la sua posizione di guida culturale e politica presso i ceti più numerosi della popolazione della penisola. Una frattura non priva di conseguenze sulla storia dello stato unitario, che non sfuggì allo storico Pasquale Villari, che così la descriveva in un discorso alla Camera del 6 maggio 1875: «…Il popolo sente la voce del clero e si abbandona a esso, appunto perché non crede al nostro scetticismo, al nostro razionalismo (…) Questo clero si avanza nelle nostre scuole; non pensa oggi al dominio temporale; ha compreso che si deve ora impadronire degli animi; ha compreso che deve penetrare nelle nostre coscienze; ha capito che, se sotto i passati governi esso era diviso, era condannato a essere lo strumento della politica dei governi sotto cui viveva, ora, avuta la libertà, unita l’Italia, può anch’esso unirsi, ed è infatti divenuto un solo partito. Esso si vale di questa libertà, cerca di penetrare nelle scuole, cerca d’impadronirsi delle coscienze per apparecchiarsi al giorno della riscossa, e per misurarsi con noi quando sarà organizzato». Il Partito popolare e, poi, la Democrazia cristiana erano ancora lontani, ma le loro radici c’erano già tutte.
*** Tratto dal terzo fascicolo de La Conquista, in edicola con il manifesto il prossimo 5 ottobre
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