Tra i dannati in fuga dalla Siria degli orrori

250mila fuggiaschi. Sono curdi siriani che nessuno vuole: né il governo di Assad né i ribelli e neppure gli jihadisti

DOHUK. FENSA tira fuori un quadro. C’è una vasca, e dei pesci che fluttuano nell’aria, ma hanno facce di bambini che versano lacrime. Sono i bambini rifugiati, pesci fuor d’acqua. Lei ha 27 anni, sta in tenda con fratello, cognata e i loro tre bambini. Sono arrivati a piedi, un anno fa. Ho imparato a disegnare per insegnare ai bambini, dice. «Non mi sento una rifugiata, mi sento una volontaria, spiego l’igiene, i diritti delle donne».

250mila fuggiaschi. Sono curdi siriani che nessuno vuole: né il governo di Assad né i ribelli e neppure gli jihadisti

DOHUK. FENSA tira fuori un quadro. C’è una vasca, e dei pesci che fluttuano nell’aria, ma hanno facce di bambini che versano lacrime. Sono i bambini rifugiati, pesci fuor d’acqua. Lei ha 27 anni, sta in tenda con fratello, cognata e i loro tre bambini. Sono arrivati a piedi, un anno fa. Ho imparato a disegnare per insegnare ai bambini, dice. «Non mi sento una rifugiata, mi sento una volontaria, spiego l’igiene, i diritti delle donne».

Il Kurdistan iracheno è quello di cui si parla meno, ma ospita, nelle tre province – Erbil, Dohuk, Suleimaniyah – fra i 230 e i 250 mila rifugiati, profughi curdi dalla Siria. A cacciarli sono tutti: il governo di Bashar e gli insorti, i terroristi islamisti e lo stesso Esercito Libero Siriano. Il campo più grande è Domiz, provincia di Dohuk, 55 mila, tutti in tende. Con quelli della città sono 117 mila. I nemici nei campi sono il caldo e il freddo, il fango, le mosche e la mortificazione. Il vento porta via le tende, la neve le sprofonda. Ci sono 6 scuole su due turni, con 12 classi ciascuna – le classi sono miste.

All’inizio i rifugiati erano single, venivano per disertare o cercare lavoro, si inserivano nella città — Dohuk ha 350 mila abitanti. I rientrati in Siria sono 18.500. È restata una libertà di movimento fra campo e città. «Sono un fardello, ma siamo esseri umani», dice il sindaco, che è stato lui stesso rifugiato per anni. Il loro dialetto è il più vicino al nostro, dice; Karin, che lavora con l’Unicef alle emergenze, aggiunge: «Nel campo mi sento apostrofare in svedese, molti hanno vissuto in Svezia». L’arrivo ha fatto salire i prezzi, soprattutto
delle case.

Adirigere il campo c’è un ingegnere, Idris Salih, 53 anni. Uno staff Unicef e Unhcr, norvegese, mozambicano, planetario insomma, si occupa di tutto, acqua, sanità, igiene, tende, canali, scuola. «Siamo la provincia più piccola col maggior numero di rifugiati. L’Iraq dichiara la frontiera chiusa, ma noi la teniamo aperta». 26 mila hanno meno di 17 anni. Per le donne tutto è più difficile, non c’è privatezza né intimità nelle tende. Alcune si vergognano di dirigersi al gabinetto sotto lo sguardo altrui. C’è un laboratorio per l’acqua, gli analisti sono giovani rifugiati sovrintesi dall’ugandese Patrick.
Se arrivate ai campi in un giorno di sole, vi pare di assistere alla fondazione di una città. In un giorno di pioggia, alla sua rovina. Il fango arriva alle ginocchia dei bambini che trascinano ciabatte scalcagnate, ci cadono dentro col pane rotondo in mano. Nel giorno di sole sventolano bucati che non vedevano l’ora, e si lavora, grandi e bambini, a spalare il fango. La scuola è il vero rifugio: stanno in tre o quattro, i più piccoli, in banchi da due, attenti, partecipi, le bambine specialmente. Hanno altalene. Si fanno fotografare con le dita a V — i più piccoli sbagliano, alzano le dita a casaccio — non chiedono niente, se non scambiare strette di mano. Li carezzate sulla testa perché sono piccoli, e hanno già visto magari il loro maestro scannato, il loro compagno ammazzato o mutilato. Baciate il dorso della mano alle bambine, e subito fanno altrettanto con la vostra mano, per adeguarsi alla vostra stravaganza. Hanno occhi che si mangiano il resto della faccia. Siete troppo in pensiero per loro per immaginare che cosa pensino di voi e del mondo, e che cosa tireranno fuori
da tutto quel fango, dal maestro scannato, dai passanti pieni di carezze e macchine fotografiche, dalle mosche che gli abitano sopra come su un muso di cammello. Uno va a scuola di chitarra da una volontaria in una tenda, ma c’è una chitarra sola, e lui poi si allena con le dita sulla grata di uno scacciamosche. Forse diventerà Jimi Hendrix, forse un inspiegabile terrorista suicida.
Il campo di Kawrgosk, fuori da Erbil, è stato aperto il 15 agosto scorso, in 3 giorni. La gente portava da mangiare, il sindaco dirigeva; i militari, al comando di un generale, hanno ammucchiato le armi e si sono buttati a scavare, tirare su tende, preparare cisterne, in capo ai 3 giorni c’erano più di 12 mila abitanti, profughi curdi da Qamishli. Una latrina ogni quattro tende, 20 litri d’acqua potabile a testa (ad Arbat, Suleimaniyah, 35 litri). C’è una campagna serrata di vaccinazioni antipolio. Marzio Babille è un pediatra triestino, responsabile Unicef per l’Iraq. I casi di poliomielite accertati sono decine, l’infezione è endemica in Afghanistan, Pakistan, Nord Nigeria e Somalia. La Siria era polio-free
nel 1998, ora i casi sono scoppiati a Deir al Zour. Il virus è d’importazione pakistana (sono arrivate centinaia di famiglie di talebani) e la guerra, il disastro sanitario e igienico, il sovraffollamento, e non ultimi i pregiudizi che hanno portato ad assassinare dottoresse e infermiere in Pakistan (il virus “americano”, il vaccino che renderebbe sterili, i medici-spie nella caccia a Obama) rendono difficilissima la campagna. Le vaccinazioni vanno replicate molte volte per i bambini dai 4 mesi ai 5 anni. Babille si augura che la missione Onu in Siria, guidata da Lakhdar Brahimi, chieda, per utopico che sembri, di aprire dei corridoi sanitari per la vaccinazione. La partita che si gioca là e nei campi dei rifugiati vale anche per l’Europa.
Il Governo regionale del Kurdistan si trova in una condizione singolare. Largamente immune dalla violenza, è tuttavia stretto fra la guerra civile siriana e il terrorismo suicida che spadroneggia nelle province centrali dell’Iraq. Intanto attraversa una fioritura politica ed economica. La Turchia di Erdogan, minacciata a sua volta dalla catastrofe siriana e dal dissenso interno, cerca nel governo di Barzani un garante della pacificazione con i propri curdi. Gli esiti della crisi siriana sono imprevedibili, e l’intero medio oriente può finirne ridisegnato. E allargato l’orizzonte dei 40 milioni di curdi, privati di uno stato e del riconoscimento.
Nel campo “di transito” di Arbat, a Suleimaniyah, restano “solo” 2500 persone. La scuola è un capannone con 5 tende, per 380 alunni su due turni. I docenti sono rifugiati. C’è un’esposizione: “Siamo contenti, non hanno disegnato carri armati”. 18 mila rifugiati sono in città, e si costruisce un campo permanente per 14 mila. Cento studenti volontari persuadono a mandare i bambini a scuola. Sono famiglie povere, fuggite dalla fame. Una bambina è appena nata, prematura, l’onnipresente Atlen dell’Unicef ha fatto in tempo a chiamare un medico. La madre non vuole essere fotografata, per paura delle ritorsioni, ma è contenta che si fotografi la neonata. Diventerà segretaria generale delle Nazioni Unite, le diciamo. Inshallah, dice. Fuori un gruppo di bambini costruisce col fango una specie di fortezza recintata, all’ingresso una colonna e sopra una scimmia pupazzetto a fare la guardia, all’interno un re leone di plastica.
Hero Talabani è la moglie del presidente dell’Iraq. Lui è in Germania, gravemente malato. Il suo partito è arrivato solo terzo alle elezioni, ma lei resta la gran signora dei curdi. Dice che il problema del mondo sono i salafiti, e l’Europa non capisce. Che detestano i curdi perché sono i soli ad aver serbato la propria nazionalità attraverso i millenni. (I curdi esistono perché esistono le montagne, mi aveva detto il sindaco di Dohuk). Ha fondato Save the Children curda e un’organizzazione di donne: «Ma io non ho mai sofferto come donna». Racconta di uno che voleva risposarsi, e ha imposto alla moglie di andare dal giudice a dichiararsi pazza. La poligamia è vietata, ma dura. Cita un vecchio proverbio: «Quando diventi ricco, o ammazzi qualcuno o prendi un’altra moglie». Racconta di Hafsakhani Naqeeb, la donna di Suleimaniyah che nel primo Novecento strappava il velo alle ragazze e regalò la casa per farne una scuola femminile, e scandalizzò offrendo, lei donna, un fiore al poeta Piramerd… I curdi hanno sofferto tanto, dice, che non possono che ospitare con tutto il cuore i perseguitati. Le chiedo delle mutilazioni genitali femminili, contro le quali un team di Unicef è impegnato: non me l’aspettavo in una società laica e colta. Mi creda, dice, io stessa non sapevo che ci fosse questo problema.
Dindar Zebari, 40 anni, è vice- ministro degli esteri. A Erbil ci sono 27 consolati generali, e un ufficio consolare italiano. Avevamo alcune migliaia di rifugiati dall’Iran e dalla Turchia, dice, e sono arrivati in 250 mila dalla Siria. È come se l’Italia accogliesse di colpo 3 milioni di rifugiati. L’aiuto degli emirati va agli arabi. Maliki — il premier iracheno — ha promesso 10 milioni di dollari e non si è visto un cent. L’Unicef sta assicurando l’equipaggiamento invernale per decine di migliaia di bambini nei campi e nelle comunità di accoglienza: vestiti, scarpe, coperte, luoghi riscaldati. Nelle tende, hanno visto le Filippine. Hanno pianto per loro, e per sé: la compassione del mondo si dirotta a un nuovo indirizzo.

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