«Sbatti il mostro in prima pagina», titolava il film del 1972 di Marco Bellocchio, con il grandissimo Gian Maria Volontè. Contribuì a educare una generazione e pezzi di opinione pubblica a diffidare delle campagne mediatico-giudiziarie, nonché a radicare la convinzione della necessità di un’altra informazione, una controinformazione, rispetto a quella diffusa e dominante.
«Sbatti il mostro in prima pagina», titolava il film del 1972 di Marco Bellocchio, con il grandissimo Gian Maria Volontè. Contribuì a educare una generazione e pezzi di opinione pubblica a diffidare delle campagne mediatico-giudiziarie, nonché a radicare la convinzione della necessità di un’altra informazione, una controinformazione, rispetto a quella diffusa e dominante. Altri tempi, certo. E più direttamente politici i frequenti casi di «mostrificazione». Che tuttavia continuano, a opera di una stampa molto – e giustamente – preoccupata delle proprie libertà e prerogative, ma assai meno delle libertà altrui e di quelle generali, oggi decisamente ridotte al lumicino da una voga proibizionista e neoautoritaria che agisce a largo spettro.
Così, di questi tempi, la costruzione mediatica dell’indignazione pubblica deve esercitarsi laddove il terreno è più fertile e il raccolto più facile. La tecnica, però, è la solita, la stessa collaudata un’infinità di volte, oggi resa più pregnante dalla pervasività delle nuove tecnologie e dei nuovi media.
Uno dei terreni più immediatamente in grado di mobilitare sentimenti e istinti è quello della violenza contro l’infanzia.
La vicenda delle due maestre di Pistoia, arrestate per maltrattamenti di alcuni bambini affidati al loro asilo ha scosso e indignato. Le immagini brutali subito diffuse dai media, con i piccoli presi a schiaffi e maltrattati, hanno provocato reazioni accese anche nelle persone più miti.
L’indignazione e anche la rabbia sono facili da comprendere, oltre che essere del tutto legittime. Meno comprensibile, e meno legittima, dovrebbe risultare l’indignazione quando diventa giustizia sommaria. Il che pare sempre più frequente. La legge di Lynch e il tribunale mediatico vanno da tempo per la maggiore, si fondano programmaticamente sull’assenza di dubbi e non consentono alcun genere di appello.
Alle due donne, subito arrestate, oltre all’immediato processo mediatico è toccato quello operato dalle altre recluse, non meno impietoso e ancor più discutibile, fatto di aggressioni e di isolamento. La «guerra tra poveri» non è, in effetti, prerogativa solo della società libera, essendo quella prigioniera nient’altro che lo specchio, pur deforme ed estremo, della prima.
Ora, dopo sei mesi di cella, le due donne sono state poste agli arresti domiciliari, in attesa dell’unico processo che ancora manca, l’unico davvero titolato ma come sempre il più lento, quello dell’aula di tribunale. I recapiti delle nuove abitazioni, dove le maestre si sono trasferite, per prudenza o per vergogna, sono stati prontamente diffusi. È così che, nei giorni scorsi, qualcuno ha pensato di lanciare due bottiglie incendiarie contro la casa di una delle due. Esito scontato, minacciato e atteso, date le premesse.
Di fronte a quest’ultimo avvenimento, il commento più responsabile è venuto da persone direttamente coinvolte e colpite, alcune mamme di bambini ospiti dell’asilo nido di Pistoia: «Nessuna rappresaglia. Non si combatte la violenza con la violenza».
Una piccola e necessaria lezione di civiltà, utile anche a porre pubblicamente una domanda: cosa c’è di più vile e odioso della violenza di un adulto su un bambino, per giunta affidato alla sua responsabilità? Viene da dire: probabilmente nulla. O, forse, di peggio c’è solo la violenza extra legem della società contro l’individuo solo e in catene: la violenza della gogna, fisica e mediatica, contro chi ha commesso atti mostruosi, ma che pure non può e non deve mai essere considerato mostro; non solo per il formale rispetto di tempi ed esiti dei processi, ma per la fondamentale – e, mi rendo conto, sempre più eretica – considerazione che in ogni caso occorre mantenere e riconoscere una distanza tra l’uomo e i suoi atti, pena la perdita di umanità di tutti e di ciascuno.
Come ha scritto Franco Corleone, «fra vittime e carnefici lo scambio di ruolo può essere più veloce della luce». Bisognerebbe avere paura di ogni clima d’odio che possa rendere attuale questo monito. E bisognerebbe forse reimparare che difendere l’indifendibile diventa pratica imperativa quando c’è la ressa per linciare Caino. Una ressa frequente a destra, naturalmente, ma pure a sinistra, dove anche e soprattutto a questi riguardi la bussola sembra da tempo smarrita.
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