Clash black- Chiedi chi è ancora Joe Strummer

Prima di ogni Clash of Civilizations, prima di ogni Scontro di Civiltà, c’era semplicemente lo Scontro: c’erano già i Clash. Nel 1976 il professor Samuel Huntington doveva ancora concepire il saggio che gli avrebbe dato imperitura fama.

Prima di ogni Clash of Civilizations, prima di ogni Scontro di Civiltà, c’era semplicemente lo Scontro: c’erano già i Clash. Nel 1976 il professor Samuel Huntington doveva ancora concepire il saggio che gli avrebbe dato imperitura fama.

Proprio quell’anno, però, l’Harvard University Press pubblica il suo No Easy Choice: Political Partecipation in Developing Countries.
Riassume Foreign Affairs: la partecipazione alla politica nei paesi in via di sviluppo — leggi: democrazia — spesso e purtroppo «impedisce il raggiungimento dell’uguaglianza socio-economica e della crescita». È in quello stesso 1976, 4 di luglio, giorno dell’Indipendenza americana, che gli americanissimi Ramones debuttano in Inghilterra. E quella stessa notte, sul palco dei Sex Pistol, nascono i Clash.
Chi l’ha detto che non puoi spiegare il punk con la geopolitica? Metti insieme due cose che non sono state messe insieme prima, scrive Julian Barnes, e il mondo è cambiato. La stessa biografia dell’eroe dei Clash si esplora come una carta geografica. John Graham Mellor, il futuro Joe Strummer, cioè Joe lo Strimpellatore, nasce ad Ankara, Turchia, da una famiglia di origini scozzese ed ebraicotedesca, e spende l’infanzia al seguito del papà diplomatico, Cairo, Città del Messico, Bonn. Perfino con la canzone più famosa, Rock The Casbah, i Clash sembrano profeticamente farsi beffa, undici anni prima, del Clash of Civilizations: mostrando, in una clip che nel 1982 fa la storia della videomusic, un arabo e un ebreo che ballano insieme, mentre Joe invita all’assalto dopo il bando antirock dello sceicco, e i piloti dei jet si rifiutano di bombardare i ribelli.
Sì, prima di ogni Clash of Civilizations, prima di ogni Scontro di Civiltà, c’era semplicemente lo Scontro: c’erano già i Clash, i punk ribelli e comunisti nell’Europa che affogava nella crisi e nel terrorismo, mentre il liberismo degli Huntington strozzava ogni sogno di rivalsa terzomondista. Ma che cosa resta, adesso, dell’eredità di Joe Strummer, che riposa da undici anni nei cieli del rock, Mick Jones, l’ex capellone ora quasi crapa pelata, Paul Simonon, l’unico che non voleva sciogliere la band, e Topper Headon, oggi pulito dall’eroina ma così indebolito da non aver potuto mai più toccare le bacchette della batteria?
The Clash Sound System è un cofanetto che Simonon, ex studente d’arte invaghito di Pollock & Rauschenberg, ha disegnato a forma di boombox, i radioloni primi anni ’80. Ok, per i fan è una cornucopia, piena di adesivi, gadgets e fanzine, e di tutti e cinque i cd della band rimasterizzati. E che gioia è poter ascoltare l’edizione “originale” dell’ultimo lavoro, Combat Rock, il disco che allora i duri & puri criticarono perché iperprodotto e quindi troppo commerciale: tradimento dell’ideologia punk. Ma davvero, trent’anni dopo, quest’altrettanto commercialissimo repackaging è tutto quel che resta?
«Il punk», scrive Donald Clarke in The Rise and Fall of Popular Music, «avrebbe dovuto rendere il rock ancora una volta pericoloso: ma la pericolosità promessa si rivelò un’illusione ». E per carità, con quel suo titolo da novello Edward Gibbon, Ascesa e caduta della musica popolare, Clarke sfodera idee chiarissime: ma forse è un po’ troppo ingiusto. Come Slavoj Zizek, il filosofo che ha sdoganato perfino Lady Gaga e però oggi sentenzia deciso: «Amo tutto dei Clash, erano così impegnati politicamente. Tutto: tranne la loro musica. Resto un sessantottino conservatore: e penso che tutto ciò che di interessante sia accaduto nel rock — confessa al New Statesman — è accaduto dal ’65 al ’75». Mah. Non sa, l’ultimo dei marxisti, che i Clash sono implosi proprio per colpa del materialismo dialettico che scuote i più avanzati modi di produzione: rockband comprese. Mick Jones, l’anima più musicale, voleva andare oltre il punk: portando verso il rap e dintorni le contaminazioni con ska, reggae, jazz, perfino discomusic (fece scandalo, all’epoca, il basso dance di Lost in The Supermarket) che la band aveva sperimentato dai tempi di London Calling.
Joe Strummer, che scriveva testi sempre più politicizzati, e un giorno si presentò sul palco con la maglietta “Brigade Rosse”, con tanto di refuso, e al centro il simbolo della Raf, voleva invece restare più fedele alla linea: del punk. Il dissenso, come in ogni società comunista che si rispetti, finì nella scelta dittatoriale di Strummer, che licenziò Jones.
Sì, prima di ogni Clash of Civilizations, prima di ogni Scontro di Civiltà, c’erano già i Clash, c’era già lo Scontro: anche interno alla band. E del resto è l’eterno ritorno, la storia della musica popolare che si avvita nel gioco delle coppie, avanti e indietro, rock & roll appunto, prendersi e lasciarsi: Lennon & McCartney, Mick Jagger & Keith Richards, Jones & Strummer. Paul Krugman, il premio Nobel per l’economia, poche settimane fa ha messo sul suo blog un video degli Arcade Fire, la band rock più applaudita del momento, che rifà la clashiana Guns of Brixton: «Senza un motivo particolare» ha scritto «questo pezzo ha continuato a girami nella testa, alla fine di una giornata da matti». È una cover strana, suonata con strumenti popolari tradizionali, che ammalia. Così, alla fine, per spiegare quel che resta dei Clash, ricorri a Samuel Huntington, certo, ma soprattutto a Julian Barnes. Metti insieme due cose che non sono mai state messe insieme prima — la geopolitica e il punk, Paul Krugman e gli Arcade Fire —: e il mondo è cambiato.

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