Sono passati settant’anni dal 16 ottobre 1943, quando di sabato i tedeschi strapparono di casa più di mille ebrei destinati a Auschwitz. Ne sono tornati 16. Una sola donna, Settimia Spizzichino (che sentì il dovere di raccontare quell’orrore alla fine della vita).
Sono passati settant’anni dal 16 ottobre 1943, quando di sabato i tedeschi strapparono di casa più di mille ebrei destinati a Auschwitz. Ne sono tornati 16. Una sola donna, Settimia Spizzichino (che sentì il dovere di raccontare quell’orrore alla fine della vita).
Oggi, a Roma, ci sono vari atti per ricordare: la visita del presidente Napolitano al Tempio ebraico, un convegno alla Camera, una mostra, infine la sera la fiaccolata della memoria tra Trastevere e l’antico ghetto, organizzata dalla Comunità ebraica e quella di Sant’Egidio. Settant’anni sono un punto di svolta, dopo che tanti testimoni sono scomparsi. Esiste già una giornata della memoria, il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz. Perché ricordare anche il 16 ottobre? Non si rischia che diventi una delle tante memorie ossificate? Addirittura l’ufficialità della memoria suscita tra alcuni giovani reazioni negative. È impressionante come, su internet, abbia via libera impunemente il filonazismo, che non si perita di festeggiare la morte dell’ultimo scampato romano dai lager.
Il problema è serio, anche perché il gusto della memoria scompare dalla vita pubblica appiattita sull’emozione del momento. Ma la nostra resta una società fatta di storia. Lo abbiamo visto nelle polemiche sui funerali del capitano SS (non gerarca), Erich Priebke, attore nella strage delle Fosse Ardeatine e in altre atrocità. Tra l’altro lo storico sa che Priebke fu contattato nel 1943 da parte vaticana, attraverso il tramite presso i tedeschi, padre Pfeiffer. Questi cercava di garantire il rispetto degli edifici della Chiesa, che nascondevano ebrei, antifascisti, militari, renitenti e ricercati. La strategia vaticana, durante l’occupazione di Roma, voleva coinvolgere anche le recalcitranti SS in quel «concordato ufficioso» (così lo chiama la Wehrmacht) che consentiva pragmaticamente alla Chiesa di essere spazio d’asilo.
La storia di quell’«inverno più lungo»(1943-44) è drammatica e dalle molte facce. Un recente libro, «La Resistenza silenziosa», fa emergere insieme una seria ricostruzione storiografica e la memoria degli ebrei. Ricordare questa storia non è solo parlare dei deportati (almeno 1.774 su circa 14.000); ma anche dei romani. Si sfata il mito del romano bonario. Gli ebrei furono venduti da alcuni romani. Le loro case e negozi furono saccheggiati. Si deve ancora scrivere la storia dei furti e dell’arricchimento con i beni ebraici. Nel dopoguerra è stato accertato in giudizio che almeno 225 ebrei romani furono arrestati per delazione. Ma sono di più. È la vicenda di «Caino a Roma» come scrive lo storico Osti Guerrazzi.
Si deve d’altra parte ricordare la storia di tanti che nascosero gli ebrei: conventi di suore (molti) e di religiosi, ambienti vaticani, famiglie. È una storia in cui si intrecciano iniziative spontanee e direttive del papa e dei suoi collaboratori. In una inedita cronaca delle suore francescane della misericordia, si legge in data 23 ottobre 1943: «È espresso desiderio dei superiori ecclesiastici che i conventi si prendano cura di questi oppressi». C’è poi una vasta zona grigia, poco esplorata. Roma era tanto complicata. Si diceva «metà Roma nasconde l’altra metà». Anche i tedeschi sapevano l’attività segreta delle case religiose (è ben documentato). Generosità, diplomazia, violenza, viltà, abilità, doppiogiochismo si fiancheggiavano e si incrociavano. È una storia molto italiana, non retorica, purtroppo vera.
Il 16 ottobre ricorda il dramma di più di mille ebrei romani deportati per ordine di Hitler, da SS che usarono per trovarli il censimento fascista dei «non ariani» del 1938, conseguenza delle leggi razziste. È una memoria che non passa, perché scritta nel dolore delle famiglie ebree. È un punto di svolta nei rapporti tra ebrei e cattolici (consapevoli di non poter lasciare soli gli ebrei come fu nel 1938 e del rapporto insopprimibile con loro). È una ferita nel cuore della capitale. Il 16 ottobre quindi non è da dimenticare: la più grande razzia di ebrei in Italia, per di più nella capitale, dovrebbe essere un giorno tutto particolare, in cui accrescere la memoria italiana in modo vivo e non istituzionale. Non un fatto retorico, ma una sosta pensosa nel ricordo del dolore, dell’umanità e della vergogna, di cui è impastata la nostra storia.
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